Daily Archives: 3 Dicembre 2018

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“Celebrare assieme” – Una serata di formazione liturgica a San Cesario

La comunità cristiana di San Cesario celebra bene, con cura. Le nostre messe esprimono il bello della fede e realmente costruiscono la nostra comunità. Proprio perché abbiamo questa sensibilità, questa riflessione intende approfondire «perché celebrare e celebrare in un certo modo, fa crescere la fede»; e di conseguenza: Come un certo modo di celebrare – al contrario – impoverisce la fede.
Partiamo da un breve racconto tratto dal «Piccolo principe»

Buon giorno”,
disse il piccolo principe.
“Buon giorno”, disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate
che calmavano la sete.
Se ne inghiottiva una alla settimana
e non si sentiva più il bisogno di bere.
“Perché’ vendi questa roba?” disse il piccolo principe.
“E’ una grossa economia di tempo”, disse il mercante.
“Gli esperti hanno fatto dei calcoli.
Si risparmiano cinquantatré minuti la settimana”.
“E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quel che si vuole…”
“Io”, disse il piccolo principe,
“se avessi cinquantatré’ minuti da spendere,
camminerei adagio adagio verso una fontana…”

Con la domenica e la messa possiamo correre il rischio di vivere una esperienza simile a quella descritta nel brano de «Il piccolo principe». Alla domenica e alla celebrazione rischiamo di chiedere il “tutto e subito”, quasi che si potesse afferrare in un attimo, in quarantacinque minuti, quello che la settimana o la vita ordinaria non ci permettono.
Il piccolo principe, invece, propone di camminare adagio verso la fontana. Camminare, cioè, muoversi, attivare il corpo e il desiderio. Adagio, per gustare il cammino e non divorare il tempo. Verso la fontana, simbolo delle sorgenti sacre della vita. La domenica è il tempo donato da Dio per caminare adagio verso la sorgente eucaristica della vita. Perché l’eucarestia è per il cristiano. la sorgente da cui sgorga l’acqua viva della Parola di Dio che si fa di nuovo carne e sangue.

Il titolo un po’ provocatorio («L’importante è partecipare»), intende mettere al centro la questione fondamentale:
nella celebrazione siamo tutti coinvolti e tutti partecipi.
Si tratta di una delle consapevolezze più decisive emerse dal Concilio Vaticano II. Il popolo di Dio, radunato, partecipa alla celebrazione. Non semplicemente assiste, ma è «concelebrante», attraverso una serie di azioni che, ora il presbitero, ora il lettore, ora il salmista, ecc…coinvolgono l’intera comunità.
Chi interviene si fa «voce», si fa «gesto» per e assieme alla assemblea, ma mai «al posto di…», cioè esonerandoci. Liturgia significa «azione del popolo e per il popolo», ovvero quello che noi facciamo davanti a Dio perché Egli sia con noi e si riveli a noi.

Questa partecipazione avviene prima di tutto lasciandosi immergere dalla celebrazione. Cosa intendiamo dire? Se pensiamo a certe esperienze della nostra vita ordinaria, ci rendiamo conto che si comprendono esclusivamente vivendole, prima ancora di capirne il senso a livello intellettuale. I termine corretto è pertanto immersione. Essere circondati, essere dentro. La liturgia la si comprende vivendola. L’esperienza di fede, del resto, non è tanto stare davanti a Dio, o Dio in me, ma stare in Dio. Ci lasciamo avvolgere dalla esperienza liturgica. Il termine più giusto allora non è capire, bensì com-prendere. Entrare con tutto noi stessi in una esperienza fatta di parola, gesti, tatto, odorato, suoni, voce, canto, movimento.
Infatti ci sono esperienze e consapevolezze che non si possono capire, fare nostre, se non vivendole. Solo grazie ad azioni o gesti che instillano in noi una nuova consapevolezza, solo grazie ad un linguaggio diverso, possiamo vivere l’esperienza di fede. Sono soprattutto i linguaggi simbolici, come il linguaggio poetico, dell’arte (musica), del muoversi.

Per questo motivo occorre entrare nella liturgia con tutto il proprio corpo, non solo con la testa. Siamo spesso intimiditi nell’usare il corpo, nel dare legittimità, spazio, libertà e valore al corpo e ai suoi movimenti, alle sue emozioni, alle sue espressioni. Invece la liturgia vive ed è decisiva grazie a tanti linguaggi, dove quello verbale e quello concettuale è uno solo di questi e, per certi versi, nemmeno il più decisivo.
Si vive l’esperienza di fede attraverso i cinque sensi: il tatto, il gusto, l’udito e la voce, l’olfatto, la vista. Noi entriamo nella liturgia con questi sensi. Anzi, il primo è sempre il tatto. Eppure ci concentriamo sul cervello. Per questo è importante un certo modo di cantare, di muoversi, di apparecchiare la mensa e la Parola, le luci, i movimenti, o l’accostarsi al pane e al vino…
Sono esperienze spirituali.
Infatti ciò che è esteriore incide sull’interiore. Non è vero che ciò che conta è l’interiorità a prescindere dal corpo e dall’esteriorità.
Questo è un esito della mentalità illuminista che abbiamo portato dentro la chiesa e che ancora ci limita tantissimo. Tuttavia, se ci pensate, nella realtà normale, quella che viviamo tutti i giorni, non è così. Siamo consapevoli che l’esterno incide sull’interno. Corpo e interiorità sono una cosa sola. Molte cose le impariamo dal corpo e col corpo, prima ancora che diventino concetto, riflessione, convinzione pensata.
«Eppure conta il cuore» – diciamo spesso. NO! Conta il cuore che sente, che si interroga perché scaldato da un canto, raggiunto da una parola attraverso una voce, toccato da un movimento, da un contatto, da un incontro di sguardi.
Oppure dal silenzio.
Un ultimo, ma non meno importante, aspetto è la comunità. Essa è fondamentale.
La liturgia è azione del popolo quindi di un «noi». Non è esperienza individuale. Personale, sì, cioè che vivo in quanto persona credente e figlio di Dio, ma dentro una comunità. Non è esperienza di isolamento (mi ritaglio uno spazio per me). Quello che raggiunge me, mi raggiunge attraverso e grazie ad un NOI!
Non esiste esperienza di fede senza un noi.
Lo dice bene sempre il Concilio Vaticano II nel documento sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium) al n° 26:

Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento dell’unità», cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.

Articolo della settimana

Avvento: il tempo dell’invocazione e dell’attesa

Entriamo nel tempo dell’avvento, il tempo della memoria, dell’invocazione e dell’attesa della venuta del Signore. Per molti cristiani l’Avvento è stato ridotto ad una semplice preparazione al Natale, quasi che si attendesse ancora la venuta di Gesù nella carne della nostra umanità e nella povertà di Betlemme. Si tratta di “un’ingenua regressione devota che depaupera la speranza cristiana”, riducendo così l’avvento ad un tempo dolciastro e svuotato della dimensione di attesa, tensione, vigilanza e responsabilità. Nell’avvento certamente ricordiamo che il Signore è venuto duemila anni fa’, ma l’avvento ci spinge oltre: non solo il Signore è venuto, ma soprattutto il Signore verrà alla fine dei tempi (noi stiamo camminando verso una buona meta, non verso il nulla) e il Signore viene anche oggi nella nostra storia invitandoci a renderla storia di salvezza per ogni uomo! Il tempo dell’Avvento vuole risvegliare in noi con forza queste due attese: l’attesa della venuta del Signore alla fine dei tempi e l’attesa della venuta del Regno di Dio nella nostra storia presente. L’Avvento ci spinge innanzitutto a sollevare lo sguardo verso il futuro, verso la fine dei tempi. Tutta la creazione geme e soffre come nelle doglie del parto aspettando la sua trasfigurazione e la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss.): il Signore verrà alla fine dei tempi e instaurerà il suo regno di giustizia e di pace. Sostenuta da questa fiducia, la chiesa nel tempo di Avvento, ripete con più forza e assiduità l’antica invocazione dei cristiani: Marana thà! Vieni Signore! L’Avvento ci ricorda che noi cristiani viviamo nell’attesa della venuta di Cristo alla fine dei tempi, l’Avvento però ci ricorda anche che in attesa del giorno del Signore noi non possiamo chiuderci nella nostra passività. Proprio l’attesa del Signore alla fine dei tempi ci obbliga a vivere da svegli e non da addormentati, ci obbliga a vivere nella vigilanza che è amore concreto verso gli altri soprattutto gli ultimo e i poveri. Proclamare nelle liturgie di Avvento: “Maranatha! Vieni Signore”, significa per noi cristiani impegnarci attivamente e concretamente perché il regno di Dio venga ora nella nostra storia. In questi giorni di avvento in cui le ore di luce si accorciano e la notte sembra vincere, noi cristiani non ci arrendiamo e continuiamo a cercare la luce vera guidati nel nostro cammino dalla croce dell’amore che le tenebre non hanno potuto e non potranno contenere.

Alcuni segni per le nostre liturgie d’Avvento
– L’avvento comincia nel momento in cui attorno a noi la natura si addormenta nel sonno dell’inverno e le giornate vedono diminuire la luce e crescere la notte. In questi giorni in cui le tenebre sembrano vincere sulla luce, per ricordarci che noi stiamo camminando verso la luce vera che le tenebre non possono vincere, iniziamo ogni celebrazione con il rito del lucernario: la chiesa è buia e durante l’atto penitenziale vengono accese progressivamente le luci. Accendiamo anche le candele che rappresentano le quattro settimane di avvento e, prima dell’ascolto della Parola di Dio, la candela sotto l’ambone: la Parola sia la luce che guida la nostra attesa.
– Il tempo dell’Avvento è il tempo in cui la chiesa invoca: “Maranatha! Vieni Signore!”, questa invocazione caratterizza l’atto penitenziale, nella certezza che il Signore non viene per condannare ma per salvare.
– La croce di Lampedusa, che abbiamo scelto di mettere al centro della liturgia in questo tempo di Avvento, ci richiama con forza l’attesa della venuta del Signore alla fine dei tempi e l’attesa della venuta-realizzazione del Regno di Dio nella nostra storia presente. La croce di Lampedusa ci ricorda che in attesa del giorno del Signore noi non possiamo chiuderci nella nostra passività. Proprio l’attesa del Signore alla fine dei tempi ci obbliga a vivere da svegli e non da addormentati, ci obbliga a vivere nella vigilanza che è amore concreto e non nella globalizzazione dell’indifferenza.