Daily Archives: 26 Dicembre 2018

Articolo della settimana

Una stalla accogliente

Messaggio di Natale 2018
del vescovo Erio Castellucci
Forse mai nella storia si erano dati appuntamento tanti significati in un solo luogo.
E non era un luogo solenne, di quelli che ospitano eventi epocali: non era una reggia imperiale e neppure un palazzo nobile; non era un tempio maestoso e nemmeno una villa principesca. Tutt’altro: era una stalla. Uno spazio abitato dagli animali, poco adatto come culla dell’uomo. E ancora meno come culla del Figlio di Dio. Eppure proprio lì, su una mangiatoia, viene alla luce Gesù. La stalla di Betlemme, luogo trascurabile di un villaggio secondario di un paese periferico, diventa il centro del mondo. Diventa l’incrocio dei destini umani e dei più grandi valori che li custodiscono: l’accoglienza della vita nascente e l’ospitalità dei poveri.
Gesù che nasce nella stalla è prima di tutto un bimbo concepito che viene accolto dai genitori, un piccolo corpo accudito e sfamato, abbracciato e accarezzato. Rappresenta, questo neonato, tutti i bimbi accolti nel mondo, ma anche tutti i bimbi che dal grembo materno non vedranno la luce, non saranno accolti. Una ferita profonda per la civiltà, non riuscire ad ospitare la vita nascente, la vita fragile di un piccolo essere umano. Gesù che nasce nella stalla è poi un bimbo rifiutato dai ricchi, che badavano al profitto e respinsero Giuseppe e Maria, gente del popolo: “non c’era posto per loro nella locanda”. Non potevano pagare ed erano oltretutto forestieri; avevano tutta l’aria di essere nomadi o, chissà, forse sfollati. Meglio non rischiare: nessuna casa per quella madre gravida, nessun riparo per quei giovani girovaghi. Un’altra ferita profonda per la civiltà, il rifiuto della vita indigente, del forestiero e del povero. La stalla di Betlemme diventa la casa della vita nascente e della vita indigente.
L’accoglienza di una vita spuntata dal grembo e di una vita uscita dal barcone sono gli indicatori del grado di civiltà di un popolo. Non l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro. Betlemme unisce ciò che spesso gli uomini dividono, e i cristiani stessi separano, schierandosi tra due file contrapposte: quelli che difendono la vita del grembo e quelli che difendono la vita del barcone. Come se fossero due vite dotate di diversa dignità, come se le fragilità fossero di serie A e di serie B. La vita è vita: punto.
Che sia nel grembo o sul barcone, trae la sua dignità dal fatto che esiste, che c’è, e non dal corrispondere ai criteri esterni imposti da una società: criteri che ricordano a volte i calcoli di convenienza di quegli albergatori palestinesi. Sono inaccettabili per la coscienza perfino le leggi e le norme dello Stato, quando permettono e programmano lo scarto della vita nel grembo o nel barcone, quando legalizzano sommariamente i respingimenti di chi chiede di vivere, venendo alla luce o sbarcando sulla terraferma.
Là dove un aggettivo qualsiasi è più importante del sostantivo “essere umano”, mai nessun diritto universale può essere riconosciuto. Se “concepito” o “nato”, se “malato” o “sano”, se “ricco” o “povero”, se “cittadino” o “straniero”, se “uomo” o “donna”, se “giovane” o “vecchio”… se questi aggettivi sono più importanti del semplice sostantivo “essere umano”, abbiamo perso per strada un pezzo fondamentale della nostra civiltà. Concentrandosi nella Notte di Natale su quella stalla, la Chiesa riaccende una semplice e grande verità: la vita va accolta. Alla porta della locanda del cuore umano non si può appendere il cartello: “chiuso per indifferenza”.
Homepage

Abbiamo bisogno del Natale

Abbiamo bisogno del Natale, oggi più che mai. Percepiamo attorno a noi un clima pesante. Aumentano i gesti di disprezzo, la violenza verbale e non meno – purtroppo – quella fisica, anche tra le mura domestiche. Al dialogo e al confronto si sostituiscono spesso parole offensive e che intendono svalutare l’altro. C’è bisogno del Natale, ma non come festa che – magicamente – ci rende almeno per un giorno «tutti più buoni». Non servirebbe a nulla ritrovare la bontà se non trasformasse nel profondo i nostri atteggiamenti e soprattutto il nostro sguardo.
No, abbiamo bisogno del Natale perché abbiamo bisogno di sentire che Dio ama la nostra fragilità. Il Natale è questo: fare memoria di un Dio che si è fatto umano, che ama a tal punto la nostra natura terrena e terrestre da assumerla per essere Emmanuele, il «Dio con noi».
In Gesù che nasce vediamo il Dio che non disprezza la nostra fragilità, ma la fa sua come occasione per amare. La mitezza del bambino, il suo affidarsi alle cure di una coppia «precaria» come Maria e Giuseppe, ci ricordano che Dio non teme l’uomo, ma chiede di essere suoi collaboratori perché la tenerezza e la bontà di Dio siano raccontate a tutti gli uomini.
Tuttavia i vangeli ci raccontano che questo riconoscimento di Dio, nella carne fragile di un bambino, non è operazione semplice. Esige un cambio di atteggiamento che sintetizzerei in tre parole: silenzio, meraviglia, pazienza.

La nascita del Signore Gesù avviene nel silenzio. Le parole sono poche, sobrie. Prevale il silenzio. Al frastuono dei potenti, al chiacchiericcio di chi vuole capire senza però implicarsi, si contrappongono le parole misurate, le domande che risuonano nell’intimo, e gli inviti a muoversi di Maria e Giuseppe, come dei pastori o dei magi.

Chi accoglie il bambino sperimenta la meraviglia e lo stupore. Meraviglia per aver scoperto che Dio si è fatto prossimo, che nella nostra vita ordinaria, segnata dalle fatiche e dagli imprevisti, dalle speranze come dalle delusioni, proprio a noi, Dio vuole farsi accanto. A dei poveri pastori disprezzati da tutti, o a dei «cercatori di Dio di altri paesi» come i magi. Non i palazzi dei potenti, non i sontuosi luoghi religiosi, ma la semplice concretezza della vita presente sono gli spazi dove Dio vuole farsi carne e rivelarsi.

Ma per riconoscere fino in fondo questa presenza occorre pazienza. Non basta l’incontro, la meraviglia e il silenzio del cuore. Occorre la pazienza di custodire questo incontro a lungo, lasciarlo risuonare nei propri pensieri come nel proprio cuore. Occorre permettere che questa novità rischiari, lentamente, le nostre storie.

Abbiamo bisogno del Natale, oggi. Abbiamo bisogno di ritrovare il silenzio che custodisce le parole buone e sensate. Abbiamo bisogno di ritrovare la meraviglia per il bene che ci viene incontro e che spesso sottovalutiamo. Solo un cuore e uno sguardo aperti alla novità, disponibile a riconoscere che qualcosa di inedito sta accadendo nella nostra vita, possono restituirci la gioia di sentirci raggiunti dal dono di Dio. Siamo troppo abituati a pensare che in fondo «non c’è niente di nuovo sotto il sole». Eppure, anche un bambino in fasce e una famiglia povera e costretta ad emigrare, come quella di Maria e Giuseppe, possono raccontare un Dio che ama la nostra vita nella sua ordinarietà.
Abbiamo bisogno della pazienza, perché il Dio di Gesù non si impone, non fa violenza. Ci chiede di frequentarlo con fedeltà e perseveranza; ci chiede di accettare di mettere da parte le nostre pretese del «tutto e subito». Solo così questo incontro potrà trasformare profondamente le nostre vite.

Non temiamo di intraprendere questo cammino. Anche noi alziamoci e «andiamo fino a Betlemme a vedere questo avvenimento» come dicono i pastori. Solo così la novità del Natale potrà illuminare a lungo i nostri giorni.

 

don Luca