Se l’invidia uccide a sangue freddo

di Michela Marzano, in “La Stampa” del 30 settembre 2020

«La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice», scriveva Alda Merini. Senza forse immaginare che, alcuni anni dopo, un ragazzo di 21 anni,Antonio Giovanni De Marco, avrebbe utilizzato l’argomento della felicità per spiegare il proprio gesto omicida. Eppure è proprio quello che è successo un paio di giorni fa, quando il giovane studente di Scienze infermieristiche di Casarano, che lo scorso 21 settembre aveva ucciso a coltellate due fidanzati di Lecce, ha confessato davanti al pubblico ministero di essere stato lui ad ammazzare Eleonora Manta e Daniele De Santis: «Li ho uccisi perché erano troppo felici e per questo mi è montata la rabbia». Peccato che il delitto, De Marco, lo abbia pianificato nei minimi dettagli, agendo a freddo con «spietatezza e totale assenza di ogni sentimento di compassione e pietà verso il prossimo», come scrive il pm nelle pagine che lo inchiodano. E che l’invidia, la rabbia, la frustrazione e l’impotenza non solo non giustifichino nulla, ma non spieghino nemmeno l’efferatezza del delitto. Che ognuno di noi desideri la felicità è scontato: è persino banale scriverlo. La voglia o il bisogno di ottenere ciò che non si ha (o di diventare ciò che non si è), sono il motore stesso dell’agire umano. Senza desideri si resterebbe paralizzati, non si farebbero sforzi, non ci si avvicinerebbe nemmeno agli altri. Cercare di migliorare la propria situazione, talvolta anche se stessi, è ciò che ci spinge a fare compromessi, a modificare le nostre traiettorie di vita, a batterci perraggiungere determinate mete. Spesso l’esempio o la presenza altrui ci stimolano a fare meglio, diversamente, di più. Qualche volta può anche accadere di provare invidia o gelosia. Ma l’invidia o la gelosia diventano assassine solo quando ci si illude che, privando gli altri di ciò che sono o di ciò che hanno, si possa poi essere sereni. Senza capire che l’equilibrio interiore lo si ottiene solo quandola si smette di paragonarsi agli altri, e ci si concentra su se stessi e i propri obiettivi. Aristotele, nellaRetorica, lo aveva già spiegato molto bene, definendo l’invidia come «un dolore causato da una buona fortuna (…) che appare presso persone simili a noi». Non sto infatti dicendo che non sia umano invidiare qualcuno o essere geloso della sua felicità. Sto solo dicendo che è assurdo pensare che distruggere una persona possa calmare le proprie ansie o colmare i propri vuoti. Anzi. Quando ce la si prende con qualcuno, si entra solo nel circolo vizioso della violenza che demolisce e annienta anche noi stessi. Il vero problema di questo terribile delitto, d’altronde, non è solo la barbarie del gesto – nonostante la prima reazione che si provi quando si apprende la lucidità con la quale De Marco ha programmato il massacro sia l’orrore – ma soprattutto l’assurdità dei motivi invocati: quell’invidia della felicità altrui che oggi avvelena l’esistenza di tanti giovani, come se non fosse ammissibile che qualcuno possa vivere una bella storia d’amore (o trovare un lavoro che gli piace) e debba per questo pagare con la vita il prezzo della sua felicità.Talvolta la vita è ingiusta, certo. Lungi da me l’idea che le cose che si vivono siano sempre e solo meritate: ci sono la fortuna, il fato, il destino, la chance, essere al momento giusto al posto giusto oppure anche nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma questo, appunto, fa parte dell’esistenza; e delle gioie o delle frustrazioni eventuali con le quali ognuno di noi è chiamato a fare i conti. Mentre oggi viviamo in una società che pesa, misura e calcola qualunque cosa, alimentando l’invidia, la gelosia e l’odio. Anche semplicemente suggerendo l’idea che ciò che non si ottiene vada strappato, e che chiunque raggiunga un obiettivo è un maledetto privilegiato che, prima o poi, dovràper forza pagarla. «Perché io no?» «Perché tu sì?» Domande vane, inutili, pericolose. Soprattutto quando portano un giovane a pensare che sia legittimo punire o eliminare qualcuno solo perché felice, invece di provare a costruire la propria personale felicità.