di Lidia Maggi, in “Riforma”, 2008
Fermiamoci un attimo. Prendiamoci un po’ di spazio per riflettere sul tempo. Come viviamo il tempo?
La domanda può sembrare un po’ astratta, una questione da filosofi. Ma è davvero così? Come raccontare le nostre storie senza fare i conti con il tempo, con la memoria del passato, col nostro presente, con le ansie e le attese future?
Parlare del tempo è parlare di noi, delle nostre vite. E riflettere su di esso significa interrogarsi sulla qualità della nostra esistenza. Come stiamo vivendo? Come scorrono i nostri giorni, i nostri anni? Immediatamente ci assale un dolore. Ci sentiamo lacerati perché vorremmo vivere i nostri giorni nella piena consapevolezza, dando priorità alle cose e alle relazioni che contano. E invece ci ritroviamo a correre, a non avere mai abbastanza tempo per le persone che amiamo. Riflettere sul tempo è prima di tutto un atto doloroso che scatena sensi di colpa, sentimenti di inadeguatezza. Il primo istinto è la rimozione che si manifesta qualche volta con la cinica rassegnazione C’est la vie. Bisogna correre, agire, produrre: essere all’altezza degli standard sociali. Non siamo felici di questo modo di vivere, ma è la realtà. Abitiamo questo tempo, siamo figli di questa epoca. Non si può vivere fuori dalla storia. E così il tempo che dovrebbe dischiudere le promesse si presenta come minaccia, se non come aguzzino che ci tiene in ostaggio. Un ritmo che non ci appartiene, imposto da una società che valuta le persone per le loro performance, per la capacità di saper sfruttare al meglio il proprio tempo. Il tempo è denaro. E dunque affrettati, il tempo scade. Non puoi permetterti di perdere tempo, cogli al volo l’oggi, l’attimo fuggente.
Attendere, prego
La nostra società negli ultimi decenni ha subito tante trasformazioni, ma sul tempo ha mantenuto dei punti fermi: massimalizzazione dei profitti. La tecnologia ha quasi totalmente annullato i tempi morti. Le distanze si fanno sempre più brevi grazie alla rete, ai mezzi di trasporto sempre più veloci. Spendiamo i nostri giorni in una società che promette tempo e invece il tempo lo consuma. Le nostre biografie, così spremute, risultano accelerate, se non schiacciate sul presente. Non c’è tempo per la memoria, per ricordare, per rielaborare il vissuto.
Noi siamo l’oggi che incalza e ci toglie il fiato. Probabilmente è anche perché siamo così sbilanciati sull’immediato che fatichiamo a ritrovare una progettualità, a guardare al domani con sentimenti di speranza e attesa.
Il tempo corre tiranno in una società dove tutto viene vissuto con ritmi accelerati e attendere significa perdere tempo. È forse per questo che proviamo un senso di fastidio bloccati nel traffico, nelle file alla posta o quando veniamo lasciati in attesa al telefono: «attendere prego!».
Viviamo i tempi di attesa come un insopportabile ostacolo alla corsa della vita. Che il movimento sia interrotto dalla sosta, che le parole siano minacciate dal silenzio, che il fare sia costretto a lasciare il posto al pensare: tutto questo ci sembra un’inutile perdita di tempo.
Tutto e subito
Perché del resto attendere quando possiamo avere tutto e subito? Perché attendere per comperare una casa, avere una macchina o più banalmente per goderci una bella vacanza? Basta un mutuo, un prestito, comode rate… Non si vuole banalizzare la fatica di chi non avendo una casa e non riuscendo a trovare un affitto, è costretto ad accedere all’abitazione solo attraverso il mutuo. Ma non possiamo tacere i rischi racchiusi in una cultura che valorizza il presente a scapito del futuro, di un mercato che ti affascina con l’offerta di un prestito e ti convince che tu puoi comperare qualsiasi cosa anche se non hai i mezzi. I desideri si riducono così a bisogni da soddisfare nell’immediato. Non c’è più capacità di attesa, né tantomeno discernimento di priorità. È una nuova schiavitù quella che vincola tutti coloro che accedono a prestiti e sono costretti a vendere il proprio tempo futuro per
pagare ciò che hanno consumato nel presente. È poi così diversa la nostra condizione da quella di quegli ebrei che, nella Bibbia, non potendo saldare il proprio debito, erano costretti a consegnarsi come schiavi ai loro creditori? Non più di sette anni però poteva durare tale servizio. I nostri mutui, generalmente, durano quattro volte di più.
insegnaci a contare i nostri giorni
Come stiamo vivendo? Siamo così immersi in ciò che facciamo che la prospettiva di fermarci, di interrompere il flusso delle tante attività ci mette panico.
Che valore diamo al nostro tempo? Quali attese ci abitano? «Insegnaci a contare i nostri giorni» prega il salmista. Perché noi siamo fatti di giorni, quelli che abbiamo già abitato, il tempo dell’oggi e quello dell’attesa futura. Meravigliose creature, tessute di continuità e cambiamento. Fragili come clessidre di cristallo. E così facile che le nostre vite si crepino nella corsa e la sabbia si disperda trasformando in deserto i nostri giorni.
Le chiese che frequentiamo? Sono il nostro specchio. Quante attività proponiamo alla città, alla comunità senza davvero interrogarci sul senso del progetto. Preoccupati di fare, di riempire l’agenda.
Si può vivere anche un’intera vita di fede all’insegna delle tante cose da fare.
E non ci viene in aiuto una certa teologia che ha insistito troppo sul compimento delle promesse (in Gesù è finita ogni attesa), dimenticando l’invito di Gesù a vegliare ad attendere la sua venuta, i nuovi cieli e la nuova terra… Riscoprire nella fede una tensione tra promessa e compimento ci aiuta a curare un po’ della nostra miopia, ci strappa dall’immediato per ampliare il nostro orizzonte.
Una spiritualità dell’attesa
La sfida è dunque quella di imparare di nuovo la «grammatica dell’attesa», svuotandoci un po’ della nostra fretta e delle nostre sicurezze e lasciando spazio a quel Dio che vuole sorprenderci. Potrebbe essere un itinerario per il tempo di Avvento, un modo per prepararci al Natale e, un po’ più in là un aiuto per riconciliarci con i ritmi delle nostre vite, ridefinendo le priorità e ritrovare il respiro della vita.