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Gesti di cura, lampi di resurrezione

A leggere la passione del Signore, in questo incalzare del male, questo addensarsi delle tenebre su un innocente, oltraggiato e lasciato solo, la mente non può che andare a quei tanti innocenti oppressi e travolti dalle logiche dei potenti e dalle conseguenze delle guerre. Più ci si addentra con Gesù nella sua passione e più si percepisce la pesantezza dell’odio e della “banalità del male”, capaci di sbarazzarsi di chi non accetta le logiche del potere e del dominio.
Eppure, all’inizio e alla fine della narrazione della Passione secondo Marco, quasi a fare da cornice alle ultime ore di Gesù, ci sono due lampi di luce che hanno come protagoniste delle donne. Pochi giorni prima di Pasqua Gesù si trova a Betania e qui viene cosparso di nardo da una donna, quale anticipo sulla unzione del corpo deposto nella tomba. Il giorno di Pasqua, poi, alcune donne – portando con sé gli unguenti – vanno al sepolcro per prendersi cura del corpo del Signore.
Colpiscono questi due gesti di cura: sono infatti, di per sé, esagerati – perché la donna di Betania spreca tanto profumo quanto un anno di stipendio per ungere Gesù – nonché inutili (che senso ha andare a profumare un corpo morto, di una persona cara che non potrai più avere accanto?).
Eppure, questi gesti compiuti o anche solo desiderati, raccontano la forza dell’amore capace di dare un senso anche a ciò che è insensato e brutale.
Lo spreco dell’unguento, tale da inondare la sala con il suo profumo, ci parla della capacità di un gesto semplice ma gratuito di espandersi e dare un “respiro” diverso alla vita, anche quando è segnata dal dramma e dalla cattiveria.
Così il desiderio di ungere un corpo morto, anche se non sarà loro permesso, sospinge delle donne a raggiungere il sepolcro, a non accettare che l’ultima parola sia la morte.
Quel gesto – seppur incompiuto – ci narra la accettazione della realtà senza rassegnazione. Le donne fanno i conti con un corpo non più vivo, eppure non viene meno il desiderio di continuare ad amarlo così com’è.
Spesso viviamo situazioni che non possiamo cambiare; non possiamo deviare il corso di certi esiti, come la croce del Signore. Oppure, dobbiamo accettare eventi che non abbiamo voluto, né determinato. Resta però la possibilità di continuare ad amare. Nei gesti di amore, gratuito, smisurati e inutili, sprigionano per tutti noi autentici lampi di resurrezione.

Buona Pasqua.

Il triduo pasquale

Nel fluire del tempo, la Chiesa celebra il Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, quale culmine di tutto l’anno liturgico, che illumina il senso di tutta la nostra vita cristiana.
Portale d’accesso a questi giorni santi è la celebrazione vespertina del Giovedì santo che commemora l’Ultima Cena, nel segno di una vita esposta, donata e consegnata: l’amore si fa servizio e dono, nel gesto di un Dio in ginocchio davanti agli uomini per lavare loro i piedi, e nel simbolo di un pane spezzato e del vino versato, profezia della consegna totale della vita. La liturgia del Venerdì santo sosta sul mistero della morte di Cristo e trova il suo centro nella Croce, strumento di morte, diventato luogo luminoso, in cui la gloria di Dio si manifesta nella debolezza mortale di un amore vissuto sino alla fine.

Nel Sabato santo, la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba: è il silenzio sospeso dell’attesa, della speranza contro ogni speranza, perché «questa non è notte, | se donne in segreto preparano aromi, | se le piante mettono | gemme di luce, | se gonfia è la terra | di luce sepolta, | in attesa dell’alba» (D. M. Montagna). Così la Veglia pasquale fa risuonare di nuovo l’Alleluia, nella luce del Cristo risorto, centro e fine del cosmo e della storia. «A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare… Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è “più notte”, è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all’alba del primo giorno della settimana» (papa Francesco).

Dalle “ceneri” a Pentecoste

Itinerario comunitario verso la Pasqua

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale ha pensato e condiviso un percorso che accompagni la nostra comunità lungo il tempo di quaresima fino alla celebrazione della Pentecoste.

Potete scaricare il volantino che presenta le iniziative proposte, cliccando qui

Riportiamo l’introduzione al percorso realizzato dal CPP

Visto che quest’anno abbiamo dedicato la nostra attenzione al tema del tempo, soprattutto a partire dalla festa di San Luigi anche con la preghiera del venerdì, questo dedicare tempo, dare tempo agli altri, dare tempo a Dio, pensiamo si leghi bene al tema della Quaresima, perché la Quaresima si caratterizza prima di tutto per essere un tempo.  

Il fatto che parliamo di 40 giorni significa mettere al centro il primato del tempo sullo spazio. Questo è anche uno dei principi portati avanti da tempo da Papa Francesco a proposito del fatto che i processi di cambiamento e di conversione sono fatti non per occupare spazi o dei vuoti, ma – al contrario – per svilupparsi nel tempo e per dare tempo perché queste trasformazioni avvengano realmente.

La Quaresima è prima di tutto un tempo, un tempo non tanto da occupare, da riempire; non è un tempo da dedicare a più preghiera o più cose o anche solo più sacrifici, come spesso abbiamo imparato a pensare, ma è un tempo dedicato, un tempo per fare spazio e per dare tempo, per accettare i tempi lunghi. La Quaresima, infatti, si sviluppa su 40 giorni: un tempo non troppo lungo, ma neanche troppo corto; un tempo – in fondo – che non puoi dominare. Il tempo della Quaresima è un tempo che non domini interiormente, che non riesci a padroneggiare perché va oltre la nostra percezione immediata del tempo. Noi riusciamo a percepire generalmente un giorno, una settimana, dieci giorni forse, un mese.

Quaranta giorni è più difficile da percepire interiormente. Non a caso rimanda l’idea un po’ del deserto come tempo (e spazio) sconfinato, un tempo dove non ne vedi in modo netto i confini. Quindi c’è questo primato del tempo che occorre accogliere e accettare, proprio perché è dare tempo a Dio affinché venga a trasformarci.  Non è un caso che il tempo della Quaresima fosse il tempo che veniva dedicato a chi doveva diventare cristiano: era il cosiddetto tempo prossimo al battesimo per i neofiti, cioè i catecumeni, coloro che dovevano essere battezzati e – nello stesso tempo – era anche il tempo dei penitenti, il tempo prossimo più vicino alla Pasqua per coloro che erano scomunicati, cioè coloro che dovevano fare un percorso di ravvedimento per aver commesso dei peccati molto gravi. Questi penitenti – il giovedì Santo – venivano riaccolti nella chiesa attraverso il vescovo per poter celebrare la Pasqua.

In sostanza la Quaresima era il tempo più prossimo alla Pasqua per coloro che volevano diventare cristiani (i catecumeni) e per coloro che dovevano tornare ad essere cristiani (i penitenti). Questo ci dice che il tempo della quaresima non è il tempo dei bravi cristiani che hanno il coraggio e la forza di mortificarsi, ma è il tempo proprio di chi deve tornare a essere cristiano o comunque deve diventare cristiano. È il tempo del discepolato, del rinnovamento, per tornare ad essere figli.  Anche le rinunce che il tempo di Quaresima domanda e che leggiamo soprattutto nella liturgia del mercoledì delle ceneri, quella del digiuno dal cibo, l’elemosina – cioè la  rinuncia al possesso – e la preghiera come rinuncia a pensarci solo come se stessi e non in relazione a Dio, non sono azioni ascetiche, ma sono tre forme per rieducare il nostro desiderio.  È l’invito a provare la fame per poter gustare meglio il pasto Pasquale, a provare la fragilità e la rinuncia di cose per imparare a gustare i beni e la condivisione, a provare nella preghiera il vuoto, la rinuncia a sé, per imparare a gustare di più la propria dipendenza da Dio. Quindi fondamentalmente la Quaresima è un percorso dove si reimpara il proprio essere “dipendenti da”: dipendenti da Dio nella preghiera (nella preghiera io riconosco che non basto a me stesso ma che ho bisogno di qualcun altro), dipendenza dai beni (imparo che non sono tutti miei ma mi sono sempre donati quindi vanno condivisi), dipendenza anche dal cibo cioè dalla vita (la vita – nella figura del cibo – non proviene solo ed esclusivamente da me, ma è sempre vita ricevuta). Pertanto, il tempo serve per reimparare il desiderio tant’è che – appunto, se ci pensiamo – la forma più alta di comunione con Dio non è il digiuno. A volte pensiamo che il digiuno sia un modo per esprimere la propria dedizione, il proprio legame con Dio. Al contrario, la forma più alta di comunione con il Signore è proprio il pasto: il pasto Pasquale, il pasto domenicale, per cui il digiuno è proprio un allenamento, è una rieducazione del desiderio proprio per vivere poi una pienezza di comunione maggiore nel pasto eucaristico, nel pasto Pasquale. In questo siamo accompagnati dalla liturgia.  La liturgia ci accompagna in questo tempo (siamo nell’anno B) sia con le liturgie feriali che con le liturgie domenicali. Le une e le altre hanno un percorso già definito, dove soprattutto si mette in stretta relazione la prima lettura e il Vangelo. In particolare, ci accompagnano nella liturgia feriale il racconto dell’Esodo e nelle liturgie domenicali – soprattutto dell’anno B – nella prima lettura la memoria delle varie alleanze stipulate da Dio: alleanza con Noè, alleanza con Abramo, alleanza con Mosè e i 10 comandamenti, alleanza con Ezechiele, alleanza col nuovo spirito cantato dal profeta Gioele. Una alleanza che va rinnovata. Nei Vangeli, invece, ci accompagnano soprattutto i Vangeli di Giovanni (o meglio siamo nell’anno di Marco ma le prime due domeniche in tutti i tre anni della Quaresima sempre dedicate al tema delle tentazioni della prima domenica e al tema della trasfigurazione la seconda domenica). Le altre tre domeniche, che invece variano ogni anno, sono appunto prese dal Vangelo di Giovanni, dove abbiamo la purificazione del tempio (III), il dialogo con Nicodemo o meglio il tema del di Gesù innalzato sulla croce come il serpente innalzato nel deserto (IV), l’immagine del seme caduto in terra che muore porta frutto (V).  Quindi, qual è lo scopo  delle letture e delle liturgie domenicali del tempo di Quaresima? Quello di riformare il discepolo. Il discepolo si ristruttura o si ripensa nel suo discepolato dietro a Gesù attraverso la parola di Dio. Sicché siamo chiamati a seguire Gesù nelle sue tentazioni, noi tentati come Gesù tentato, noi trasformati/trasfigurati come Gesù trasfigurato e poi noi che dobbiamo purificare la nostra immagine di Dio e noi che siamo chiamati a ricomprendere i misteri della salvezza di Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo figlio, dice Gesù a Nicodemo.  Infine, seguendo Gesù, siamo chiamati a prendere in considerazione anche il dono totale di noi stessi come seme caduto in terra. Quindi è un percorso di riscoperta del nostro essere discepoli dietro al Signore e da ultimo ricordiamo anche che la Quaresima non si comprende se non alla luce della Pasqua e del tempo di Pasqua.  Come afferma il liturgista Andrea Grillo, non sono solo 40 giorni, ma sono 40+3+50.  40 giorni di Quaresima, 3 giorni del triduo Pasquale che esplodono nei 50 giorni del tempo Pasquale; quindi, è un tempo che ci inizia alla Pasqua. Il tempo di Quaresima finisce col Giovedì Santo; seguono tre giorni di Pasqua (perché il triduo sono tre giorni di Pasqua riletti sotto tre prospettive diverse) che esplode nella domenica di Pasqua e che si perpetua – come un’eco – per 50 giorni. Fino a Pentecoste viviamo 50 giorni di vita Pasquale dove l’energia del risorto riforma la comunità.

Calendario dei percorsi di Iniziazione Cristiana

Il calendario del I ciclo (II elementare) lo potete scaricare cliccando qui

Il calendario del II ciclo (III elementare) lo potete scaricare cliccando qui

Il calendario del III ciclo (IV-V elementare) lo potete scaricare cliccando qui

Il calendario del percorso Genitori e bambini 3-6 (Buon Pastore) lo potete scaricare qui.

Perché un bambino è nato per noi?

Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.

(Isaia, 9, 5)

La pace sembra oggi sempre più fragile e prossima a spezzarsi definitivamente. In tante, troppe parti del mondo, venti di guerre, conflitti, tensioni e rivendicazioni soffiano prepotenti.

Non ci sono solo le drammatiche guerre in Ucraina e in Terra Santa, dove assistiamo quasi con indifferenza alla uccisione di tante persone e alla rovina del futuro di questi popoli, ma sentiamo anche minacce di nuove guerre, di invasioni, di “soluzioni definitive” ai problemi dei profughi, che sembrano echeggiare le “soluzioni finali” proclamate dai regimi nella prima metà del ‘900.

Per chi invoca maggiori interventi militari, un incremento di spese belliche e sostegno ai soldati al fronte.

A chi proclama il “diritto a difendersi con ogni mezzo”, a salvaguardare la propria identità e il proprio patrimonio storico e culturale contro chiunque lo minacci, il Natale…, ogni anno, risponde con il segno più fragile e più semplice: un bambino.

Mi verrebbe da pensare che anche allora, come oggi, difronte alla profezia di Isaia, molti abbiano sorriso, scosso la testa, ironizzato su queste parole di speranza.

Chi oggi invita a deporre le armi, a trovare vie di riconciliazione, viene visto come ingenuo, incapace di stare nella realtà, intento ad invocare soluzioni impossibili.

Abbiamo bisogno davvero di un bambino. Abbiamo bisogno del Natale. Abbiamo bisogno, cioè, di un ribaltamento, che ci faccia guardare la realtà con occhi diversi, non ingenui, né incantati, ma capaci di cogliere la bellezza dell’umano.

“Troverete un bambino avvolto in fasce” annunciano gli angeli ai pastori. Niente di più, niente di meno. Ma è proprio questo che siamo chiamati a contemplare. È proprio un bambino sul quale siamo chiamati a tenere fisso il nostro sguardo. Non per farci commuovere dalla zuccherosa tenerezza di un bambinello, ma per recuperare lo stupore per l’umano, l’interrogativo che scaturisce da una vita fragile che nasce e che ci viene affidata.

La pace nasce dalla disponibilità a tornare a guardare gli altri come uomini e donne, e non come numeri o come problema, come combattenti di una fazione o di un’altra, come costi sociali da ridimensionare.

Se siamo chiamati a cercare e trovare un bambino è perché abbiamo bisogno di recuperare la grammatica dell’umano e dell’esistenza, fatta di parole come vita, cura, futuro, accoglienza, impegno, responsabilità…

Abbiamo bisogno di tornare ad incrociare volti concreti, mani che cercano e piedi che scalpitano, bocche che parlano e occhi che interrogano.

La “prima pace”, quella disponibile e a nostra portata, nasce da qui: dal rinnovare il nostro sguardo senza infantilizzare Dio, ma vivendo da credenti adulti.

Imparare ad attendere

di Lidia Maggi, in “Riforma”, 2008

Fermiamoci un attimo. Prendiamoci un po’ di spazio per riflettere sul tempo. Come viviamo il tempo?
La domanda può sembrare un po’ astratta, una questione da filosofi. Ma è davvero così? Come raccontare le nostre storie senza fare i conti con il tempo, con la memoria del passato, col nostro presente, con le ansie e le attese future?

Parlare del tempo è parlare di noi, delle nostre vite. E riflettere su di esso significa interrogarsi sulla qualità della nostra esistenza. Come stiamo vivendo? Come scorrono i nostri giorni, i nostri anni? Immediatamente ci assale un dolore. Ci sentiamo lacerati perché vorremmo vivere i nostri giorni nella piena consapevolezza, dando priorità alle cose e alle relazioni che contano. E invece ci ritroviamo a correre, a non avere mai abbastanza tempo per le persone che amiamo. Riflettere sul tempo è prima di tutto un atto doloroso che scatena sensi di colpa, sentimenti di inadeguatezza. Il primo istinto è la rimozione che si manifesta qualche volta con la cinica rassegnazione C’est la vie. Bisogna correre, agire, produrre: essere all’altezza degli standard sociali. Non siamo felici di questo modo di vivere, ma è la realtà. Abitiamo questo tempo, siamo figli di questa epoca. Non si può vivere fuori dalla storia. E così il tempo che dovrebbe dischiudere le promesse si presenta come minaccia, se non come aguzzino che ci tiene in ostaggio. Un ritmo che non ci appartiene, imposto da una società che valuta le persone per le loro performance, per la capacità di saper sfruttare al meglio il proprio tempo. Il tempo è denaro. E dunque affrettati, il tempo scade. Non puoi permetterti di perdere tempo, cogli al volo l’oggi, l’attimo fuggente.

Attendere, prego

La nostra società negli ultimi decenni ha subito tante trasformazioni, ma sul tempo ha mantenuto dei punti fermi: massimalizzazione dei profitti. La tecnologia ha quasi totalmente annullato i tempi morti. Le distanze si fanno sempre più brevi grazie alla rete, ai mezzi di trasporto sempre più veloci. Spendiamo i nostri giorni in una società che promette tempo e invece il tempo lo consuma. Le nostre biografie, così spremute, risultano accelerate, se non schiacciate sul presente. Non c’è tempo per la memoria, per ricordare, per rielaborare il vissuto.
Noi siamo l’oggi che incalza e ci toglie il fiato. Probabilmente è anche perché siamo così sbilanciati sull’immediato che fatichiamo a ritrovare una progettualità, a guardare al domani con sentimenti di speranza e attesa.
Il tempo corre tiranno in una società dove tutto viene vissuto con ritmi accelerati e attendere significa perdere tempo. È forse per questo che proviamo un senso di fastidio bloccati nel traffico, nelle file alla posta o quando veniamo lasciati in attesa al telefono: «attendere prego!».
Viviamo i tempi di attesa come un insopportabile ostacolo alla corsa della vita. Che il movimento sia interrotto dalla sosta, che le parole siano minacciate dal silenzio, che il fare sia costretto a lasciare il posto al pensare: tutto questo ci sembra un’inutile perdita di tempo.

Tutto e subito

Perché del resto attendere quando possiamo avere tutto e subito? Perché attendere per comperare una casa, avere una macchina o più banalmente per goderci una bella vacanza? Basta un mutuo, un prestito, comode rate… Non si vuole banalizzare la fatica di chi non avendo una casa e non riuscendo a trovare un affitto, è costretto ad accedere all’abitazione solo attraverso il mutuo. Ma non possiamo tacere i rischi racchiusi in una cultura che valorizza il presente a scapito del futuro, di un mercato che ti affascina con l’offerta di un prestito e ti convince che tu puoi comperare qualsiasi cosa anche se non hai i mezzi. I desideri si riducono così a bisogni da soddisfare nell’immediato. Non c’è più capacità di attesa, né tantomeno discernimento di priorità. È una nuova schiavitù quella che vincola tutti coloro che accedono a prestiti e sono costretti a vendere il proprio tempo futuro per

pagare ciò che hanno consumato nel presente. È poi così diversa la nostra condizione da quella di quegli ebrei che, nella Bibbia, non potendo saldare il proprio debito, erano costretti a consegnarsi come schiavi ai loro creditori? Non più di sette anni però poteva durare tale servizio. I nostri mutui, generalmente, durano quattro volte di più.

insegnaci a contare i nostri giorni

Come stiamo vivendo? Siamo così immersi in ciò che facciamo che la prospettiva di fermarci, di interrompere il flusso delle tante attività ci mette panico.
Che valore diamo al nostro tempo? Quali attese ci abitano? «Insegnaci a contare i nostri giorni» prega il salmista. Perché noi siamo fatti di giorni, quelli che abbiamo già abitato, il tempo dell’oggi e quello dell’attesa futura. Meravigliose creature, tessute di continuità e cambiamento. Fragili come clessidre di cristallo. E così facile che le nostre vite si crepino nella corsa e la sabbia si disperda trasformando in deserto i nostri giorni.

Le chiese che frequentiamo? Sono il nostro specchio. Quante attività proponiamo alla città, alla comunità senza davvero interrogarci sul senso del progetto. Preoccupati di fare, di riempire l’agenda.
Si può vivere anche un’intera vita di fede all’insegna delle tante cose da fare.

E non ci viene in aiuto una certa teologia che ha insistito troppo sul compimento delle promesse (in Gesù è finita ogni attesa), dimenticando l’invito di Gesù a vegliare ad attendere la sua venuta, i nuovi cieli e la nuova terra… Riscoprire nella fede una tensione tra promessa e compimento ci aiuta a curare un po’ della nostra miopia, ci strappa dall’immediato per ampliare il nostro orizzonte.

Una spiritualità dell’attesa

La sfida è dunque quella di imparare di nuovo la «grammatica dell’attesa», svuotandoci un po’ della nostra fretta e delle nostre sicurezze e lasciando spazio a quel Dio che vuole sorprenderci. Potrebbe essere un itinerario per il tempo di Avvento, un modo per prepararci al Natale e, un po’ più in là un aiuto per riconciliarci con i ritmi delle nostre vite, ridefinendo le priorità e ritrovare il respiro della vita.

“Sinodalità, serve una spinta di comunione”

di Mimmo Muolo in “Avvenire” del 24 ottobre 2023

Il Sinodo «non è una questione di aggiustamenti o riposizionamenti interni alla Chiesa. Un Sinodo così inteso è destinato a incidere davvero poco. Ce lo ricorda continuamente il Papa». Al contrario «una Chiesa che fa suo il metodo e i contenuti del cammino sinodale e che non smette – in tutti i suoi membri – di essere aperta all’azione dello Spirito in ordine alla realizzazione della comunione, è una Chiesa che può contribuire con maggiore credibilità a rendere migliore questo mondo».

Parola del vescovo Nunzio Galantino, che ha citato il teologo Yves Congar: «in molti persiste implicita l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare. E invece è tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa». Ne consegue che «la conversione invocata, prima del cambiamento delle strutture, richiede la maturazione di una spiritualità del “noi” ecclesiale». E dunque anche la sinodalità «richiede attitudini spirituali, che vanno coltivate e che non possono essere estranee ai percorsi di formazione di laici e ministri ordinati». In altri termini serve «una spiritualità della sinodalità che fa, di fatto, riferimento a una spiritualità di comunione, criterio di appartenenza alla Chiesa». Secondo Galantino, «coltivare tale spiritualità consente di vedere e vivere la Chiesa in una prospettiva dinamica, cioè in cammino». Prende forma in sostanza «una Chiesa inclusiva e non competitiva, che prende in considerazione la diversità dei carismi e pone l’accento sulle relazioni, sul dialogo, sulla corresponsabilità, sulla reciprocità e circolarità fra tutti i poli ecclesiali». Ciò significa che «al di là della sinodalità formale, che si dispiega nelle strutture e nei processi istituzionali come i consigli pastorali, i sinodi o i concili – ha proseguito il vescovo -, l’appello a camminare insieme e riunirsi in assemblea del popolo di Dio deve esprimersi nel modo ordinario di vivere e di operare della Chiesa. In modo da favorire e sviluppare la partecipazione e la corresponsabilità di tutti».

La conversione dunque riguarda sia i laici che i sacerdoti. Per i primi, ha spiegato Galantino, «si tratta di passare dalla dipendenza all’assunzione della responsabilità, che nasce dal battesimo. Per i presbiteri si tratta di passare dall’organizzazione alla riscoperta della dimensione della paternità».

Nella difficile stagione che stiamo vivendo, la questione del laicato è, a parere del vescovo, una delle più delicate. «La conversione richiesta oggi ai laici, nella prospettiva di una Chiesa sinodale, è quella di riscoprire e vivere il senso della corresponsabilità che si nutre di amore per la propria comunità, nella quale sono chiamati a portare il sapore dell’esperienza della vita». Ma perché questo avvenga e «nei laici si susciti una nuova volontà di impegno creativo – ha sottolineato il vescovo – occorre che essi si sentano partecipi di una comunità nella quale sono qualcuno, sono riconosciuti; debbono sentire che la loro presenza è desiderata e apprezzata».

Per i preti, invece, «la conversione parte da un serio percorso di formazione». Una formazione «che sradichi il fascino sempre più diffuso della logica accentratrice, per spingere verso uno stile paterno di conduzione della comunità. La paternità genera. E quando esercita l’autorità è per far crescere e non per far andare le cose secondo il proprio modello». Essere padri «significa guardare con fiducia ai propri figli, credere che anche loro “sanno fare qualcosa di buono” e permettere loro di farlo vedere, permettendo loro anche di sbagliare, aiutandoli a ricominciare, senza giudicarli e senza umiliarli». «Finché questo non diventa stile – ha concluso Galantino – la sinodalità stenterà a farsi strada».

Catechesi del “buon pastore”

per bambini dai 3 ai 6 anni e loro genitori

Per una presentazione del progetto di iniziazione alla fede dei bambini tra i 3 e i 6 anni, si può scaricare il volantino informativo cliccando qui