Author Archives: don.luca

Sabato Santo. Il necessario smarrimento

di Paola Bignardi, in Avvenire di sabato 8 aprile

«Oggi sulla terra c’è un grande silenzio, grande silenzio e solitudine». Così si legge in un’antica omelia sul Sabato Santo. C’è un tempo sospeso, tra il dramma e l’eterno, a portare allo scoperto la verità delle nostre vite, le profondità del cuore. È il giorno dello smarrimento. I discepoli si sono dispersi: chi si è chiuso nel Cenacolo, incredulo e spaventato; chi si allontana da Gerusalemme, portando nel cuore una profonda delusione: «Noi speravamo…» (Lc 24,21). Forse nessuno aveva capito che la storia del loro Signore potesse finire così; nemmeno Giuda, che pure si era dato da fare per consegnare il Maestro ai capi del Sinedrio, e compie il gesto estremo di togliersi la vita. Ognuno risponde all’evento come sa, mette in campo ciò che è realmente, nei suoi sentimenti e desideri più profondi.

Dopo che il Signore Gesù ha consegnato lo spirito con il suo ultimo respiro – «chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30) – anche noi sentiamo che in quello spirare c’è qualcosa della nostra morte, c’è un silenzio che ci coinvolge, c’è uno smarrimento in cui si concentra tutto il dramma delle nostre vite e della nostra fede stupita da questo dolore, da questa mitezza, da questo amore. Dopo quell’ultimo respiro, ci sembra di essere più soli ad affrontare i nostri dolori, a portare i pesi della vita e le sue domande. Ci rendiamo conto che anche noi «speravamo…», come i due che si allontanano da Gerusalemme. Anche noi speravamo che venisse il giorno in cui il lupo e l’agnello avrebbero vissuto insieme, invece dobbiamo assistere a una guerra che non finisce di mostrare il suo orrore e che di giorno in giorno sembra allargarsi sempre più; speravamo in una fraternità rinnovata, e invece ci vediamo incapaci di accogliere chi cerca di sfuggire a condizioni di vita disumane e chiederebbe di condividere un po’ del benessere di chi sta bene…; anche noi speravamo che per i poveri, per gli ultimi, per quelli che finora sono vissuti nell’ombra della dimenticanza e della marginalità venisse il tempo di una nuova attenzione, di una nuova solidarietà. E invece…

Anche nella Chiesa, noi speravamo. Speravamo che il Concilio rappresentasse la sua primavera, che il suo sforzo di rinnovamento la rendesse più capace di dialogare con le donne e gli uomini di questo tempo, che la sua azione missionaria riuscisse a far intravedere la forza e la bellezza del Vangelo e, anche se vediamo i cammini e i processi avviati da papa Francesco e partecipiamo a essi, la sentiamo profondamente coinvolta in una crisi minacciosa, che mette alla prova la nostra fede e la nostra capacità di guardare al futuro con speranza.

Anche le donne che avevano seguito Gesù non avevano capito il destino che attendeva il loro Maestro. Smarrite e sconvolte dal dolore, dedicano il loro sabato a preparare oli e aromi per ungere il corpo del loro Signore. La sua morte non le ha disperse, non ha allontanato da lui il loro pensiero, che è tutto proteso al giorno dopo, quando potranno recarsi al sepolcro, «di mattino, quando è ancora buio», si dice di Maria di Magdala. L’amore ha fretta, non sopporta indugi. Anche per loro il Signore è morto. Testimoni del suo ultimo respiro, hanno sentito che qualcosa moriva anche dentro di loro. Ma il loro legame con lui non poteva essere spezzato dalla morte, Lui continuava a vivere nel loro cuore. Lo avevano seguito nella completa gratuità: non avevano progetti, né si aspettavano di sedere chi alla destra e chi alla sinistra. Lui era importante per loro perché era lui, perché le aveva liberate dal male, consegnate a una nuova libertà e possibilità di vita. E il giorno dopo il sabato tornano da lui; è rimasto solo il suo corpo, ma loro non possono staccarsi almeno da quel corpo.

Le donne non si sottraggono allo smarrimento del giorno dopo; accettano di abitarlo per poter sperimentare che dalla profondità di quel dolore possono sorgere parole nuove per comprendere la propria fragile umanità e per sperimentare in maniera nuova la vita.

La presenza delle donne nella Pasqua dice che l’amore è più forte della morte: non risolve tutti i problemi, ma restituisce vita; non cancella il dolore, ma dà la forza per affrontarlo. Stare nelle situazioni critiche della vita continuando a credere nella forza del bene; stare nella crisi della Chiesa senza smettere di amarla: questa è la lezione delle donne, questo è quello che avevano imparato dal loro Maestro. Avrebbe potuto scendere dalla croce: avrebbe salvato sé stesso! E invece è rimasto a consegnare la sua vita «fino in fondo», perché l’amore è più forte della morte. Lo smarrimento del nostro Sabato Santo ci invita ad accogliere dentro di noi la solitudine e il silenzio di una giornata in cui il tempo sembra sospeso. Ma è solo per aprirsi a un tempo nuovo.

Triduo pasquale, cuore dell’anno liturgico e della vita della chiesa

di Benedetto XVI

All’inizio della Settimana Santa riportiamo la Catechesi di Benedetto XVI (19 marzo 2008) dedicata ai «tre giorni comunemente chiamati santi perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione» cioè «la passione, la morte e la risurrezione di Gesù». Il cristiano sa che «l’odio, le divisioni e le violenze non hanno mai l’ultima parola».

Cari fratelli e sorelle, siamo giunti alla vigilia del Triduo Pasquale. I prossimi tre giorni vengono comunemente chiamati «santi» perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione; ci riconducono infatti al nucleo essenziale della fede cri­stiana: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Sono giorni che potremmo considerare come un unico giorno: essi costituiscono il cuore ed il fulcro dell’intero anno liturgico come pure della vita della Chiesa. Al termine dell’itinerario quaresimale, ci apprestiamo anche noi ad entrare nel clima stesso che Gesù visse allora a Gerusalemme. Vogliamo ridestare in noi la viva memo­ria dell’amore del Signore per noi e prepararci a celebrare con gioia, domeni­ca prossima, «la vera Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste», come dice il Prefazio per il giorno di Pasqua nel rito ambrosiano.

Il Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena duran­te la quale Gesù ci ha lasciato il comandamento nuo­vo dell’amore fraterno.

Prima di entrare nel Triduo Santo, ma già in stretto collegamento con esso, avrà luogo in ogni comu­nità diocesana, la Messa Crismale, durante la quale il vescovo e i sa­cerdoti del presbiterio diocesano rinnova­no le promesse dell’Ordinazione. Vengono anche benedetti gli olii per la celebrazio­ne dei Sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio dei malati e il sacro crisma. È un mo­mento quanto mai importante per la vita di ogni comunità diocesana che, raccolta attorno al suo pastore, rinsalda la propria unità e la propria fedeltà a Cristo, unico Sommo ed Eterno Sacerdote.

Alla sera del Giovedì, nella Messa in Coena Domini si fa memoria dell’Ultima Cena quando Cristo si è dato a tutti noi come nutrimento di salvezza, come farmaco di immortalità: è il mistero dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Col gesto umile e quanto mai espressivo della lavanda dei piedi, siamo invitati a ri­cordare quanto il Signore fece ai suoi apo­stoli: lavando i loro piedi proclamò in ma­niera concreta il primato dell’amore, a­more che si fa servizio fino al dono di se stessi, anticipando anche così il sacrificio supremo della sua vita che si consumerà il giorno dopo sul Calvario. Secondo una bella tradizione, i fedeli chiudono il Giovedì Santo con una veglia di preghiera e di adorazione eucaristica per rivivere più intimamente la passione-amore di Gesù al Getsemani.

Il Venerdì Santo è la giornata che fa me­moria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la liturgia della Chiesa non prevede la cele­brazione della Santa Messa, ma l’assemblea cristiana si raccoglie per meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, per ripercorrere, al­la luce della Parola di Dio e aiutata da commoventi gesti liturgici, le sofferenze del Signore che ci salvano da questo male. Dopo aver ascoltato il racconto della passione di Cristo, la comunità prega per tutte le necessità della Chiesa e del mondo e adora la Croce.

Come ulteriore invito a meditare sulla pas­sione e morte del Redentore e per espri­mere l’amore e la partecipazione dei fedeli alle sofferenze di Cristo, la tradizione cri­stiana ha dato vita a varie manifestazioni di preghiera, che mirano ad imprimere sempre più profondamente nell’animo dei fedeli sentimenti di vera partecipazione all’amore di Cristo.

Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. Grande im­portanza viene data in questi giorni alla partecipazione al Sacramento della riconciliazione, indispensabile via per purificare il cuore e predisporsi a celebrare intimamente rinnovati la Pasqua. Almeno una volta all’anno abbiamo bisogno di que­sta purificazione interiore di questo rinnovamento di noi stessi.

Questo Sabato di silenzio, di meditazione, di perdono, di riconciliazione sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia, la domenica della Pasqua di Cristo. Veglia la Chiesa accanto al nuovo fuoco benedetto e medita la grande promessa, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento, della liberazione definitiva dall’antica schiavitù del peccato e della morte. Nel buio della notte viene acceso dal fuoco nuovo il cero pasquale, simbolo di Cristo che risorge glorioso. Cristo luce dell’umanità disperde le tenebre del cuore e dello spirito ed illumina ogni uomo che viene nel mondo. Accanto al cero pa­squale risuona nella Chiesa il grande annuncio pasquale: Cristo è veramente risorto, la morte non ha più alcun potere su di Lui. Con la sua morte Egli ha sconfitto il male per sempre ed ha fatto dono a tutti gli uomini della vita stessa di Dio.

Per antica tradizione, durante la Veglia Pasquale, i catecumeni ricevono il Battesimo, per sottolineare la partecipazione dei cristia­ni al mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Dalla splendente notte di Pasqua, la gioia, la luce e la pace di Cristo si espandono nella vita dei fedeli di ogni comunità cristiana e raggiungono ogni punto dello spazio e del tempo.

Cari fratelli e sorelle, in questi giorni singolari orientiamo decisamente la vita verso un’adesione generosa e convinta al vangelo; rinnoviamo il nostro «sì» all’amore del Padre rivelatoci in Gesù. I suggestivi riti del Giovedì Santo, del Venerdì Santo, il silenzio ricco di preghiera del Sabato Santo e la solenne Veglia Pasquale ci offrono l’opportunità di ap­profondire il senso e il valore della nostra vocazione cristiana, che scaturisce dal Mistero Pasquale e di concretizzarla nella fedele sequela di Cristo in ogni circostanza, come ha fatto Lui, sino al dono generoso della nostra esistenza.

Far memoria dei misteri di Cristo significa anche vivere in profonda e solidale adesione all’oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva ed attuale. Portiamo dunque nella nostra preghiera la drammaticità di fatti e situazioni che in questi giorni affliggono tanti nostri fratelli in ogni parte del mondo. Noi sappiamo che l’odio, le divi­sioni, le violenze non hanno mai l’ultima parola negli eventi della storia. Questi giorni rianimano in noi la grande speranza: Cristo crocifisso è risorto e ha vin­to il mondo. L’amore è più forte dell’odio, ha vinto e dobbiamo associarci a questa vittoria dell’amore.

Ad un anno dalla guerra…

di Gigliola Alfaro – 22 febbraio 2023

“A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, 438 bambini sono stati uccisi e 854 feriti. Circa 3,4 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria nel Paese. 1,5 milioni di bambini sono a rischio di depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico e altre patologie mentali, più di 5 milioni di bambini hanno subito un’interruzione nella loro istruzione, 2 bambini ucraini rifugiati su 3 non sono attualmente iscritti al sistema scolastico del paese ospitante, oltre 1.000 strutture sanitarie sono state danneggiate o distrutte, così come oltre 2.300 scuole primarie e secondarie”. Lo ricorda, oggi, Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef Italia.

“Questi non sono solo numeri: i bambini ucraini hanno sopportato 365 giorni di violenza, traumi, perdite, distruzione e sfollamento da quando la guerra si è intensificata nel febbraio 2022. I 7,8 milioni di bambini del Paese sono stati privati di 365 giorni di giochi, ricordi, istruzione e tempo con amici e familiari”, aggiunge Iacomini, precisando: “Questo significa 365 giorni in cui i bambini hanno trascorso i loro compleanni rannicchiati nei rifugi antiatomici anziché che a casa con i loro affetti. 365 giorni in cui i bambini hanno dovuto adattarsi a una vita in altri paesi piuttosto che giocare con i loro amici nel parco sotto casa. 365 giorni in cui i bambini hanno incontrato i compagni e gli insegnanti attraverso uno schermo, invece che in un’aula scolastica sicura e riscaldata. 365 giorni in cui i bambini hanno sperato che la vita sarebbe presto ‘ritornata alla normalità’”. Il portavoce dell’Unicef Italia rileva: “Mentre ci avviciniamo al termine di un anno, i bambini ucraini si sono  resi conto che il mondo è instabile, imprevedibile e può essere un posto terribile. La perdita di un senso di sicurezza di base ha un effetto catastrofico sul loro apprendimento e sullo sviluppo emotivo e sociale”.

Per Iacomini, “sebbene i bambini e le famiglie ucraine abbiano dimostrato un’enorme capacità di recupero, le ferite psicologiche di questa guerra potrebbero infatti segnarli per tutta la vita. A un anno dall’inizio della guerra, i bambini continuano ad affrontare la paura, l’ansia e il dolore associati alla perdita dei propri cari, alla separazione dalla famiglia, allo sfollamento forzato dalle proprie case, all’isolamento e al completo sconvolgimento della propria infanzia. Le ferite mentali della guerra possono ripercuotersi sui bambini fino all’età adulta. Per evitare una generazione di bambini segnati dalla guerra, occorre dare priorità alla loro salute mentale e ai loro bisogni psicosociali”.

Il portavoce dell’Unicef Italia conclude: “Questa guerra ha già privato i bambini ucraini di un anno della loro vita. Non possiamo permettere che questa li privi anche del loro futuro. I bambini ucraini hanno bisogno di pace e noi dobbiamo aiutarli a riprendersi e a ricostruire le loro vite”.

Calendari dei percorsi di Inziazione Cristiana gennaio-maggio

Il calendario degli incontri di Iniziazione Cristiana per genitori e bambini del I ciclo (seconda elementare) lo potete scaricare cliccando qui.

Il calendario degli incontri di Iniziazione Cristiana per genitori e bambini del II ciclo (terza elementare) lo potete scaricare cliccando qui.

Il calendario degli incontri di Iniziazione Cristiana per genitori e bambini del III ciclo (quarta-quinta elementare) lo potete scaricare cliccando qui.

Sussidio per la novena

Per chi desidera pregare nei giorni della novena al Natale, può scaricare il sussidio preparato dai membri del Consiglio Pastorale.

Per i sussidio cliccare qui

E’ inoltre possibile scaricare e stampare dei disegni per ogni giorno della novena da far ecolorare ai bambini.

Per i disegni, cliccare qui

Ricucire la vita

di Mario Calabresi

Quanto tempo serve per ricostruire la storia di una vita, per mettere insieme tutti i frammenti di memoria necessari per comporre il disegno completo? Certo non un pomeriggio, ma quando Alì ha cominciato a raccontare non avrei mai immaginato che ci saremmo dovuti vedere altre diciannove volte. Venti interviste per trasformare un’etichetta – “profugo afghano” – nella complessità di un’esistenza piena di sfumature. Una vita che è stata un pellegrinaggio senza sosta, cominciato dalla sua famiglia, una famiglia di sarti, quando lui aveva solo due anni. Non avevano sogni ambiziosi, ma molto semplici: la ricerca di un po’ di pace e di un luogo tranquillo in cui fosse possibile lavorare, e vivere.
 

Abdullah Khaliqi, detto Alì, ha 38 anni, vive a Torino e ha un piccolo negozio di sartoria nel centro della città. È noto tra i suoi clienti per la sua precisione e la sua gentilezza, tutti lo salutano ma nessuno gli fa domande, forse per discrezione sabauda, forse perché non siamo abituati a interrogarci sulle storie delle persone. Io, una mattina, dopo che ero già entrato nel suo negozio almeno un paio di volte per farmi sistemare un orlo o mettere le toppe a un buco sul maglione, ho preso coraggio e gli ho chiesto da dove venisse. Mi ha spiegato che era afghano di Kabul e da quel momento è cominciato un dialogo che sarebbe durato per quasi un anno, fatto di chiacchierate lunghe e distese, di incontri brevi e faticosi e anche di lunghi silenzi.

Alì, come molte persone che hanno vissuto situazioni difficili, non sempre riusciva o voleva ricordare, io non lo forzavo mai, stavo zitto, a volte ci salutavamo così, senza dire nulla. E, dopo un po’, lui mi chiamava, pronto a proseguire il suo racconto. Mai, nella mia vita di giornalista, mi era capitato di andare così a fondo intervistando una persona, e quando ho cominciato non pensavo neanche lontanamente che quel racconto sarebbe diventato un lungo capitolo del mio nuovo libro.
 
Insieme ad Alì all’interno del suo negozio “TuOrlo” a Torino, la complessità della sua esistenza, la quantità di dettagli, incontri, speranze e dolori che Alì mi ha raccontato hanno dato forma, settimana dopo settimana, a una vita straordinaria, fatta di gesti di coraggio, attenzioni e generosità. Una vita che stupisce chiunque voglia allontanarsi dalle semplificazioni del nostro tempo. Pensate a quante se ne potrebbero applicare ad Alì, riducendolo a un numero, uno dei tanti: “profugo”, “clandestino”, “illegale arrivato su un barcone”, “richiedente asilo”… Perché Alì è stato tutte queste cose. Oggi davanti agli occhi ho un uomo che è riuscito ad aprire un suo negozio, a mettere su casa, a spedire ogni mese i soldi ai suoi genitori che ora vivono in Iran e che il mese prossimo si sposerà con Breshna – significa “luce” –, una ragazza afghana laureata in legge e fuggita da Kabul grazie a un aereo militare italiano quando i talebani sono tornati al potere.
 
Alì è riuscito a conquistarsi una vita serena e normale, quella che sognavano i suoi genitori, perché ha trovato persone che nei momenti più difficili hanno allungato una mano e non l’hanno lasciato affondare. È accaduto quando nel bosco al confine con la Bulgaria una voce gli ha detto di cambiare direzione per non essere colpito dalle guardie di frontiera; è successo quando l’amico Ahmad lo ha trascinato sulla coperta della barca che li stava portando in Italia, per evitare che soffocasse; quando il sindaco di un paese calabrese lo ha ospitato nella casa di una vecchia zia da poco scomparsa; quando una coppia di professori in pensione della Val Pellice ha impedito che dormisse alla stazione di Torino, o al parco, e gli ha aperto le porte di casa; quando un gruppo di amici ha garantito con l’agenzia per l’affitto del negozio. Il suo racconto mi dice che gli altri possono fare la differenza. Gli altri siamo noi.

La storia di Alì, dodicesimo capitolo di Una volta sola, è una di quelle a cui sono più affezionato e un esercizio di paziente ricostruzione del percorso di una vita, il lavoro che mi rende più felice.

“…e voi siete tutti fratelli”

La “fraternità globale” per vivere nel mondo.

Forse non tutti abbiamo sentito parlare del cosiddetto “effetto farfalla”: si tratta di un concetto emerso nella prima metà degli anni ’60 a partire dal pensiero del matematico Lorenz, secondo il quale “Un battito d’ali di una farfalla in Brasile, può provocare un uragano in Messico”. Un principio che intende esprimere lo stretto legame che esiste tra gli esseri umani, il pianeta e le loro interazioni.

Forse non basta realmente un battito d’ali a provocare una sciagura, ma è pur vero che non possiamo più ritenere le nostre scelte o le nostre azioni totalmente prive di conseguenze sugli altri.

Ce ne stiamo accorgendo sempre più in questi anni: tutto è interconnesso; dalle scelte politiche planetarie alle questioni legate al clima, per non parlare della economia, e non possiamo pertanto pensare che certi problemi non ci riguardino, né che certe questioni “locali” o personali riguardino solo noi e le nostre esistenze.

Nei suoi ultimi interventi Papa Francesco ha riconosciuto e ribadito questo principio: “tutto è collegato, tutto è in relazione”. Lo ricorda nella “Laudato si’” in riferimento al nostro pianeta e nella “Fratelli tutti”, riguardo alla società. 

È vero. Ormai la globalizzazione ci ha resi cittadini del mondo e corresponsabili delle vite altrui in un modo e con una consapevolezza inimmaginabile fino a pochi anni fa. Non possiamo limitarci a guardare al nostro piccolo e limitato giardino, per quanto bello e curato che sia. Non possiamo nemmeno lasciarci spaventare dalla ampiezza e complessità del mondo e delle sue dinamiche affermando con rassegnazione: “Non possiamo farci niente”. La recente guerra in Ucraina, forse proprio per la sua vicinanza all’Italia, ha riacceso in noi questa verità spesso nascosta o sopita.

Anche come comunità di credenti non possiamo nasconderci o sottovalutare l’impatto che le nostre scelte di vita hanno sugli altri. La fede, infatti, non ci fa rivolgere al cielo per sfuggire al mondo e ai suoi problemmi, ma ci fa rivolgere lo sguardo sul fratello e la storia per vivere da risorti. Il principio alla base di questa responsabilità abita nella fraternità.

 “…voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.”, ricorda Gesù ai suoi discepoli e a noi. Il Signore ci mette in guardia da volerci elevare sugli altri come “maestri” di qualcuno, cioè come coloro che hanno un potere superiore o un diritto maggiore. Richiamandoci alla fraternità come cifra delle nostre relazioni, ci invita a riconoscerci tutti responsabili e tutti ugualmente destinatari di un dono che ci previene e ci supera.

Se è vero che non si decide di essere fratelli, si può decidere di vivere da fratelli. La fraternità è prima di tutto fraternità umana, che non è determinata dalla razza o dalla cultura, e tantomeno dalla religione. Non a caso – sempre papa Francesco – in vista del suo viaggio in Iraq nel marzo 2021, si rivolgeva al popolo iracheno rifacendosi a queste parole del vangelo, col desiderio di vivere e camminare assieme ai cristiani e ai mussulmani nella comune esperienza della fraternità.

Ci sono molti atteggiamenti che possono aiutarci a “vivere e pensarci come fratelli”: dall’ascolto reciproco fino alla attenzione concreta nella gestione delle risorse con scelte virtuose e rispettose del pianeta.  Penso che un primo atteggiamento sia quello di onorare la dignità dell’altro, cercando costantemente di costruire e ricostruire ponti, piuttosto che innalzare steccati. Davanti al mondo che tenta di ripararsi dall’altro, di isolarsi per proteggersi o di attaccare per scoraggiare ogni invadenza, vivere la fraternità accetta la sfida della vulnerabilità, del rinforzare la trama che ci lega gli uni agli altri, piuttosto che spezzare o tagliare i fili.

Dedicare tempo all’atro è un secondo aspetto che favorisce la fraternità. Occorre perdere tempo per guadagnare il fratello e la sorella. Nella logica del profitto, dell’altro interpretato o visto solo nella logica individualistica o utilitaristica, il vangelo ci richiama alla gratuità delle relazioni. Nella libertà si scopre la fraternità come comune denominatore, perché spogliata delle definizioni che rinchiudono l’altro.

Da ultimo, la fraternità invoca un linguaggio diverso, dove al “mio” si sostituisce sempre più “nostro”, dove sul “per me” (o per alcuni), prevale il “per tutti”.

La fraternità non si risolve in alcune scelte o in alcuni principi, giacché ognuno può trovare le proprie personali strade per viverla. Le stesse relazioni fraterne all’interno della nostra comunità saranno altrettanto importanti per accompagnarci a vivere da autentici cittadini del mondo.

Sinodo: richiesti più ascolto e accoglienza

Mimmo Muolo in “Avvenire” del 10 agosto 2022

In questi giorni è stata diffusa dalla Cei la Sintesi nazionale della fase diocesana sul Sinodo per una Chiesa sinodale. Il documento, dal titolo “Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, è il distillato di circa 50.000 gruppi sinodali, che hanno coinvolto mezzo milione di persone. La Sintesi nazionale (disponibile online sui siti www.camminosinodale.chiesacattolica.it  e www.chiesacattolica.it) è frutto di un ascolto capillare del popolo di Dio coinvolto con diverse proposte e progetti. Quanto ai contenuti, essi sono organizzati in dieci aree tematiche: vediamoli più da vicino.

Ascoltare. Va colmato il «debito di ascolto come Chiesa e nella Chiesa, verso una molteplicità di soggetti». I giovani, che non chiedono che si faccia qualcosa per loro, ma di essere ascoltati; le vittime degli abusi sessuali e di coscienza; le vittime di tutte le forme di ingiustizia; i territori, di cui imparare ad accogliere il grido. L’ascolto, infatti, chiede di far cadere i pregiudizi, di rinunciare alla pretesa di sapere sempre che cosa dire, di imparare a riconoscere e accogliere la complessità e la pluralità. E perciò diventa «già annuncio della buona notizia del Vangelo». «Il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto».

Accogliere. La Sintesi chiede di «superare la distinzione “dentro-fuori”». Si parla di «ministero di prossimità». «Vivere l’accoglienza significa armonizzare il desiderio di una “Chiesa in uscita” con quello di una “Chiesa che sa far entrare”, a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia». Di conseguenza «si riconosce il bisogno di toccare ferite e dare voce a questioni che spesso si evitano». Tante sono le differenze che oggi chiedono accoglienza: «generazionali (i giovani che dicono di sentirsi giudicati, poco compresi, poco accolti; gli anziani da custodire e da valorizzare); generate da storie ferite (le persone separate, divorziate, vittime di scandali, carcerate); di genere (le donne e la loro valorizzazione nei processi decisionali) e orientamento sessuale (le persone Lgbt+ con i loro genitori); culturali (ad esempio, legate ai fenomeni migratori, interni e internazionali) e sociali (disuguaglianze, acuite dalla pandemia; disabilità ed emarginazione)».

Relazioni. «Le persone vengono prima delle cose da fare e dei ruoli». L’incontro con le persone non va vissuto come un corollario, ma come il centro dell’azione pastorale, per «riconoscere e prendersi cura delle diverse forme di solitudine e di coloro che vivono situazioni di fragilità e marginalità».

Celebrare. La celebrazione eucaristica è e rimane “fonte e culmine” della vita cristiana. Tuttavia, la Sintesi registra anche «una distanza tra la comunicazione della Parola e la vita, una scarsa cura delle celebrazioni e un basso coinvolgimento emotivo ed esistenziale».

Comunicazione. «Risulta diffusa la percezione di una Chiesa che trasmette l’immagine di un Dio giudice più che del Padre misericordioso». Per cui serve un linguaggio «non discriminatorio, meno improntato alla rigidità, ma più aperto alle domande di senso».

Condividere. La corresponsabilità appare come il vero antidoto alla dicotomia presbitero-laico. «La Chiesa appare troppo “pretocentrica” e questo deresponsabilizza». I laici sono «relegati spesso a un ruolo meramente esecutivo e funzionale». Attenzione poi all’emarginazione delle donne che non consente «alla voce femminile di esprimersi e di contare». Anche le religiose e le consacrate «spesso si sentono utilizzate soltanto come “manodopera pastorale”». Da migliorare il funzionamento degli organismi di partecipazione: consigli pastorali e affari economici. «Diverse comunità ne sono prive, mentre in molti casi sono ridotti a una formalità».

Dialogo. Il confronto quotidiano con il mondo del lavoro, della scuola e della formazione, gli ambienti sociali e culturali, gli aspetti cruciali della globalizzazione fa emergere la consapevolezza che «la fede non è più il punto di riferimento centrale per la vita di tante persone: per molti il Vangelo non serve a vivere». Ma «i semi del Verbo sono presenti in ogni contesto».

Casa. Bisogna evitare di trasformare le parrocchie e le comunità in fan club, di cui chi è fuori fatica a percepire il senso. Più che una casa, la comunità viene purtroppo pensata come un centro erogazione servizi, più o meno organizzato. «La Chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo».

Passaggi di vita «Una comunità cristiana che vuole camminare insieme è chiamata a interrogarsi sulla propria capacità di stare a fianco delle persone nel corso della loro vita, e di accompagnarle a vivere in autenticità la propria umanità e la propria fede in rapporto alle diverse età e situazioni. Anche il camminino dell’iniziazione cristiana ha bisogno di transitare alla logica dell’accompagnamento».

Metodo «Per dare forma e concretezza al processo sinodale è stato proposto un metodo di ascolto delineato secondo i principi della conversazione spirituale», con i suoi tre passi: la presa di parola da parte di ciascuno, l’ascolto della parola di ognuno e delle risonanze che essa produce, l’identificazione dei frutti dell’ascolto e dei passi da compiere insieme».

Le dieci aree tematiche toccano ambiti estremamente attuali, che indicano con chiarezza il cammino che siamo chiamati a compiere insieme per rinnovare la nostra Chiesa.