“Stabat mater”: Il dolore e la speranza delle madri

Messaggio per la Pasqua di Mons. Erio Castellucci

Stabat Mater dolorosa”… la famosa sequenza, attribuita a Jacopone da Todi (XIII sec.), messa in musica tra gli altri da Pierluigi da Palestrina (XVI sec.), riecheggia la scena del Vangelo di Giovanni che inizia proprio così: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala” (Giovanni 19,25). Non erano fuggite, come quasi tutti i discepoli, ma stavano lì, nel momento del dolore supremo; e non si erano accasciate, ma rimanevano in piedi: l’evangelista usa un verbo che indica proprio questa dignitosa posizione. La sofferenza delle madri, nei millenni, è smisurata. Un simbolo eloquente è la Plaza de Mayo, a Buenos Aires in Argentina, che tra il 1976 e il 1983 ha visto centinaia di madri dei desaparecidos sfidare coraggiosamente la dittatura militare, per chiedere la liberazione dei loro figli arrestati e torturati. Ma quanti milioni di madri, nell’arco della storia umana, restano in piedi sotto la croce dei loro figli! Le madri dei bimbi morti per fame, sete o malattia; le madri degli adolescenti e dei giovani che si tolgono la vita o sono vittime di incidenti; le madri dei soldati di tutte le guerre, che li vedono partire senza poterli riabbracciare. E le madri che salutano i figli affidandoli al mare, senza sapere se saranno vittime di naufragio o giungeranno al sicuro. Una lista davvero dolorosa e drammatica, che non finirebbe più.

Ciascuna di loro è racchiusa in Maria, la “mater dolorosa”.

La Pasqua non è però solo il buio del venerdì santo; è anche e soprattutto l’alba della domenica. Per preparare discepoli alla sua morte e risurrezione, Gesù ha offerto proprio un’immagine materna: “la donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Giovanni 16,21). L’esperienza del parto è passione e gioia assieme, sofferenza e speranza nello stesso evento. Solo le madri lo sanno: per questo la morte del figlio è per loro quanto di più innaturale si possa vivere, quasi un parto alla rovescia. Ma le madri sanno inserire dei punti di luce nel dolore. Poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, il web diffuse un breve video che scosse milioni di persone: un giovane soldato russo in lacrime, fatto prigioniero ed evidentemente traumatizzato, è attorniato da ucraini che gli porgono un the caldo; alla sua destra una donna tiene un cellulare davanti alla bocca del giovane, che così può rassicurare sua madre facendole sapere che è vivo. La donna ucraina ha lo sguardo della madre, che vede in quel soldato non un nemico, ma un figlio.

Donna, ecco tuo figlio”: Gesù consegna a sua madre un altro figlio, il discepolo amato, che la prende nella sua casa: “ecco la tua madre” (cf. Giovanni 19,26-27). Solo il Signore può trasformare una croce in una culla, un sepolcro in una casa, un luogo di morte in un luogo di vita nuova. Dalla distruzione di una famiglia, nasce nella Pasqua una nuova famiglia. È l’indomabile speranza cristiana, che non annulla il dolore, non cerca (inutilmente) di aggirarlo, ma lo abita mantenendo accesa una luce: la certezza che l’amore, alla fine, vince. Sotto la croce di Gesù, Maria è come se vivesse una seconda volta le doglie del parto, in attesa della risurrezione, vita che vince. E sarà, oltre che la madre di Gesù, anche la madre del discepolo amato, cioè di chiunque di noi la prende nella sua casa.

La speranza delle madri è più forte di ogni violenza e si annida dentro ad ogni croce. La sequenza di Jacopone, iniziata con il dolore della madre, si conclude con l’espressione “paradisi gloria”. È la prospettiva della gloria, il lato domenicale della Pasqua, che sostiene la nostra speranza il venerdì e il sabato, mentre camminiamo nella storia. E ci sostiene con la testimonianza e la forza delle madri.

“Ordo amoris”

C’è un’ideologia perversa che pretende di trovare un sostegno teologico alle politiche discriminatorie e suprematiste messe in atto dall’attuale amministrazione Usa. Il concetto è stato espresso molto chiaramente da J. D. Vance, il vicepresidente Usa che dice di essere cattolico. “C’è un concetto cristiano che dice di amare la propria famiglia, – ha detto Vance – poi i propri vicini, poi la propria comunità, poi i propri concittadini e infine di dare la priorità al resto del mondo”.

Per sostenere questa tesi, il vicepresidente è andato a scomodare Sant’Agostino, di cui dice di essere un grande ammiratore, che parla di “ordo amoris”, ovvero di un ordine (gerarchico?) nell’amore.

In maniera pressoché diretta Papa Francesco ha risposto nella lettera indirizzata ai vescovi Usa scrivendo che “l’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che a poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi”. Rifacendosi alla parabola del Buon Samaritano, ha poi affermato che il “vero ordo amoris” si basa sull’“amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni”.

Senza dubbio, se fosse come dice Vance, personalmente non esiterei ad abbandonare la religione cristiana, ma per grazia di Dio credo che il Papa interpreti bene il pensiero di Agostino che intendeva dire tutt’altra cosa e che sicuramente non ha mai affermato che bisogna amare alcuni maltrattando altri.

Se fosse come dice Vance, Francesco d’Assisi e tutti i santi del calendario starebbero all’inferno.

ATTESA

L’installazione artistica sulla lunetta dell’ingresso della Basilica di San Cesario D.M.

Titolo: Attesa

Artista: Federico Manicardi

Materiali: coperte termiche; plastica; polistirolo

Anno: 2025

Non è facile alzare lo sguardo, soprattutto oggi. Il tempo che stiamo vivendo è un tempo frenetico, incerto, caotico. Spesso per non perderci o per non lasciarci travolgere dagli eventi stiamo attenti a dove mettiamo i piedi, a chi ci sta accanto e a quello che abbiamo davanti. Per essere pronti, efficienti, flessibili, veloci, i nostri occhi restano incollati alla terra, ma così facendo perdiamo di vista il fine delle nostre vite.
Non dalla terra, ma dal cielo arriverà la nostra speranza; non per nostri meriti, ma per un suo dono potremo contemplare il volto di Dio.

Gesù nel Vangelo lo rivela:
“Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,25-28).

Non è facile alzare lo sguardo, ma è possibile.
È l’unico modo per poter accogliere il ritorno del Figlio dell’uomo e la liberazione che lui ci offre.

L’installazione per questo tempo giubilare vuole aiutarci proprio a fare questo: alzare lo sguardo. La calda luce dorata delle coperte termiche ci invita ad alzare lo sguardo prima di varcare la porta della chiesa. Lo sconvolgimento degli astri, del cielo, delle nubi, evocati dalle forme morbide e vorticose non annunciano la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di nuovo. Il segno della croce, il luogo in cui si è pienamente rivelato il Figlio dell’uomo, è lì per annunciarci che la nostra liberazione è vicina: non perdiamo la speranza!

Col Natale Dio ha cambiato indirizzo

Nel dicembre 2022, in contesto ancora pandemico, usciva “Don’t look up” (“Non guardate in su”), un film che narra la scoperta da parte di due scienziati astronomi di una cometa che si rivela – ben presto – diretta verso la terra e destinata a distruggerla. Nel tentativo di comunicare al mondo l’imminente catastrofe si palesano ben presto due schieramenti: chi si lascia interpellare da questo evento e chi, invece, come la politica, preferisce negarlo, ignorarlo, fingere che non sia un problema, o tutt’al più sfruttarlo per i propri interessi economici. Da qui lo slogan che la politica e i media rimandano costantemente: “Don’t look up” – “Non guardate in alto” – non lasciatevi interrogare, preoccupare o distrarre dai segni nel cielo, ma tenete lo sguardo ben fisso a terra, alla vita ordinaria e frenetica.

Questo invito, purtroppo, non eviterà l’impatto.

Il film ha fatto molto discutere per i molteplici significati e tematiche che lo attraversano. Qualcuno ha voluto leggerci anche le conseguenze della superficialità umana che non accetta di lasciarsi interrogare dai temi della vita, come la morte, il senso dell’esistenza, la responsabilità verso gli altri e verso se stessi. Si preferisce evitare di scrutare il cielo, di interrogarsi sui segni che la realtà ci manda. Si preferisce “fare finta” che non stia accadendo nulla di tragico nel mondo.

2000 anni fa, invece, qualcuno ha accettato la sfida di alzare lo sguardo e lasciarsi interrogare dall’apparire improvviso di una cometa.

Il Natale, infatti, non è invito a guardare il cielo per distogliere l’attenzione dalla terra, dai suoi drammi e dalle persone che ci vivono. Non è nemmeno ripiegarsi su se stessi, sul consumo sfrenato delle cose di oggi per trovare sollievo, anche solo per pochi giorni. Entrambe le strade sono “evasioni” dalla vita, in un modo o nell’altro.

Il Natale è invito a scrutare il cielo coi piedi per terra, come i Magi, che si sono lasciati interrogare dai segni senza fuggire in un mondo immaginario.

E se allora i pastori furono invitati a farsi affascinare dal coro degli angeli, dallo scintillare quasi accecante di una luce avvolgente, era solo perché il loro sguardo si posasse, presto, su un bambino.

La gioia e le luci natalizie, che avvolgono il nostro paese, ci invitano a “fare luce” sulle tenebre che oscurano tante realtà che sono accanto a noi e quelle che – purtroppo – affliggono tanti nel mondo.

La luce di un bambino, la verità di una umanità semplice e aderente alla terra, ci dicono che sono le persone in carne ed ossa a chiedere salvezza. Sono queste persone, come siamo noi, e le loro storie ordinarie a domandare pace e solidarietà.

Davanti ai potenti che preferiscono ignorare i “piccoli” e i fragili, che guardano ai numeri per confermare il loro potere, o che usano violenza per non perderlo, la carne fragile di un bambino ci ricorda che Dio non si accomoda tra i salotti dei dominatori, ma tra terra umida e polverosa dei diseredati.

Il Natale ci ricorda che Dio non è nel potere o tra i potenti. Se alziamo lo sguardo per cercare i “piani alti”, se lo cerchiamo lì, per il nostro senso di sicurezza o di tranquillità…, non lo troveremo. È tempo di guardare altrove. Perché da quella notte, Dio ha cambiato definitivamente indirizzo.

La speranza del Giubileo

di Luigi Sandri in “L’Adige” del 13 maggio 2024

«Possa il Giubileo essere occasione di rianimare la speranza». È questo l’auspicio che percorre l’intera bolla «Spes non confundit» con la quale papa Francesco ha indetto ufficialmente il Giubileo del 2025, che inizierà il 24 dicembre con l’apertura della «porta santa» della basilica vaticana e si concluderà il 6 gennaio 2026. Il Giubileo ha origine dalla tradizione ebraica che lo fissava ogni 50 anni e aveva precisi obiettivi:

–  la terra doveva essere lasciata riposare (con lo scopo pratico di rendere più forti le successive coltivazioni),

–  la remissione dei debiti,

–  gli schiavi dovevano riacquistare la libertà e tornare alle proprie case.

L’annuncio del Giubileo veniva dato nel tempio di Gerusalemme dal suono dello shofar, cioè un corno di ariete, in ebraico yobel, da cui deriva il termine Giubileo. Le indicazioni sono tratte dal libro del Levitico al capitolo 25: “Conterai sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba dell’acclamazione; nel giorno dell’espiazione farete squillare il corno per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo”. (Lv 25, 8-13)

Non è ben chiaro se e come gli ebrei abbiano celebrato il Giubileo; è certo, comunque, che le Chiese cristiane per oltre un millennio dimenticarono l’idea. Fu papa Bonifacio VIII, nel 1300, a indire il primo Giubileo. Esso, però, scordato quello biblico, aveva come scopo principale il pellegrinaggio per venire a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, e «acquistare» così le indulgenze. L’Europa fu percorsa da un enorme fremito: pellegrini da tutti i paesi si misero in cammino (chi a cavallo e chi a piedi) per raggiungere la Città eterna: lo stesso Dante Alighieri vi partecipò, e ne parlò nella Divina Commedia. Ma, se per Bonifacio la «Grande perdonanza» doveva avere una scadenza centenaria, poi altri papi la fissarono ogni venticinque anni. I Giubilei, lungo i secoli, si svolsero con questa scadenza, salvo in caso di guerra.

L’Anno Santo è tempo di grazia, momento per risvegliare la fede e le coscienze. È l’anno della remissione dei peccati e delle pene, è l’anno della riconciliazione tra avversari, è l’anno della conversione e della penitenza, è l’anno della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno per servire Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. Bergoglio, nella sua bolla, invita tutti ad essere pellegrini-portatori di speranza, soprattutto verso i giovani e i carcerati, i profughi e i poveri. Ma ricorda anche i grandi drammi del mondo, in particolare le guerre: «è troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? E che le Nazioni più benestanti stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli?».

A conclusione della bolla di indizione del Giubileo papa Francesco scrive: «Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore».

Il triduo pasquale

Nel fluire del tempo, la Chiesa celebra il Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, quale culmine di tutto l’anno liturgico, che illumina il senso di tutta la nostra vita cristiana.
Portale d’accesso a questi giorni santi è la celebrazione vespertina del Giovedì santo che commemora l’Ultima Cena, nel segno di una vita esposta, donata e consegnata: l’amore si fa servizio e dono, nel gesto di un Dio in ginocchio davanti agli uomini per lavare loro i piedi, e nel simbolo di un pane spezzato e del vino versato, profezia della consegna totale della vita. La liturgia del Venerdì santo sosta sul mistero della morte di Cristo e trova il suo centro nella Croce, strumento di morte, diventato luogo luminoso, in cui la gloria di Dio si manifesta nella debolezza mortale di un amore vissuto sino alla fine.

Nel Sabato santo, la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba: è il silenzio sospeso dell’attesa, della speranza contro ogni speranza, perché «questa non è notte, | se donne in segreto preparano aromi, | se le piante mettono | gemme di luce, | se gonfia è la terra | di luce sepolta, | in attesa dell’alba» (D. M. Montagna). Così la Veglia pasquale fa risuonare di nuovo l’Alleluia, nella luce del Cristo risorto, centro e fine del cosmo e della storia. «A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare… Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è “più notte”, è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all’alba del primo giorno della settimana» (papa Francesco).

Dalle “ceneri” a Pentecoste

Itinerario comunitario verso la Pasqua

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale ha pensato e condiviso un percorso che accompagni la nostra comunità lungo il tempo di quaresima fino alla celebrazione della Pentecoste.

Potete scaricare il volantino che presenta le iniziative proposte, cliccando qui

Riportiamo l’introduzione al percorso realizzato dal CPP

Visto che quest’anno abbiamo dedicato la nostra attenzione al tema del tempo, soprattutto a partire dalla festa di San Luigi anche con la preghiera del venerdì, questo dedicare tempo, dare tempo agli altri, dare tempo a Dio, pensiamo si leghi bene al tema della Quaresima, perché la Quaresima si caratterizza prima di tutto per essere un tempo.  

Il fatto che parliamo di 40 giorni significa mettere al centro il primato del tempo sullo spazio. Questo è anche uno dei principi portati avanti da tempo da Papa Francesco a proposito del fatto che i processi di cambiamento e di conversione sono fatti non per occupare spazi o dei vuoti, ma – al contrario – per svilupparsi nel tempo e per dare tempo perché queste trasformazioni avvengano realmente.

La Quaresima è prima di tutto un tempo, un tempo non tanto da occupare, da riempire; non è un tempo da dedicare a più preghiera o più cose o anche solo più sacrifici, come spesso abbiamo imparato a pensare, ma è un tempo dedicato, un tempo per fare spazio e per dare tempo, per accettare i tempi lunghi. La Quaresima, infatti, si sviluppa su 40 giorni: un tempo non troppo lungo, ma neanche troppo corto; un tempo – in fondo – che non puoi dominare. Il tempo della Quaresima è un tempo che non domini interiormente, che non riesci a padroneggiare perché va oltre la nostra percezione immediata del tempo. Noi riusciamo a percepire generalmente un giorno, una settimana, dieci giorni forse, un mese.

Quaranta giorni è più difficile da percepire interiormente. Non a caso rimanda l’idea un po’ del deserto come tempo (e spazio) sconfinato, un tempo dove non ne vedi in modo netto i confini. Quindi c’è questo primato del tempo che occorre accogliere e accettare, proprio perché è dare tempo a Dio affinché venga a trasformarci.  Non è un caso che il tempo della Quaresima fosse il tempo che veniva dedicato a chi doveva diventare cristiano: era il cosiddetto tempo prossimo al battesimo per i neofiti, cioè i catecumeni, coloro che dovevano essere battezzati e – nello stesso tempo – era anche il tempo dei penitenti, il tempo prossimo più vicino alla Pasqua per coloro che erano scomunicati, cioè coloro che dovevano fare un percorso di ravvedimento per aver commesso dei peccati molto gravi. Questi penitenti – il giovedì Santo – venivano riaccolti nella chiesa attraverso il vescovo per poter celebrare la Pasqua.

In sostanza la Quaresima era il tempo più prossimo alla Pasqua per coloro che volevano diventare cristiani (i catecumeni) e per coloro che dovevano tornare ad essere cristiani (i penitenti). Questo ci dice che il tempo della quaresima non è il tempo dei bravi cristiani che hanno il coraggio e la forza di mortificarsi, ma è il tempo proprio di chi deve tornare a essere cristiano o comunque deve diventare cristiano. È il tempo del discepolato, del rinnovamento, per tornare ad essere figli.  Anche le rinunce che il tempo di Quaresima domanda e che leggiamo soprattutto nella liturgia del mercoledì delle ceneri, quella del digiuno dal cibo, l’elemosina – cioè la  rinuncia al possesso – e la preghiera come rinuncia a pensarci solo come se stessi e non in relazione a Dio, non sono azioni ascetiche, ma sono tre forme per rieducare il nostro desiderio.  È l’invito a provare la fame per poter gustare meglio il pasto Pasquale, a provare la fragilità e la rinuncia di cose per imparare a gustare i beni e la condivisione, a provare nella preghiera il vuoto, la rinuncia a sé, per imparare a gustare di più la propria dipendenza da Dio. Quindi fondamentalmente la Quaresima è un percorso dove si reimpara il proprio essere “dipendenti da”: dipendenti da Dio nella preghiera (nella preghiera io riconosco che non basto a me stesso ma che ho bisogno di qualcun altro), dipendenza dai beni (imparo che non sono tutti miei ma mi sono sempre donati quindi vanno condivisi), dipendenza anche dal cibo cioè dalla vita (la vita – nella figura del cibo – non proviene solo ed esclusivamente da me, ma è sempre vita ricevuta). Pertanto, il tempo serve per reimparare il desiderio tant’è che – appunto, se ci pensiamo – la forma più alta di comunione con Dio non è il digiuno. A volte pensiamo che il digiuno sia un modo per esprimere la propria dedizione, il proprio legame con Dio. Al contrario, la forma più alta di comunione con il Signore è proprio il pasto: il pasto Pasquale, il pasto domenicale, per cui il digiuno è proprio un allenamento, è una rieducazione del desiderio proprio per vivere poi una pienezza di comunione maggiore nel pasto eucaristico, nel pasto Pasquale. In questo siamo accompagnati dalla liturgia.  La liturgia ci accompagna in questo tempo (siamo nell’anno B) sia con le liturgie feriali che con le liturgie domenicali. Le une e le altre hanno un percorso già definito, dove soprattutto si mette in stretta relazione la prima lettura e il Vangelo. In particolare, ci accompagnano nella liturgia feriale il racconto dell’Esodo e nelle liturgie domenicali – soprattutto dell’anno B – nella prima lettura la memoria delle varie alleanze stipulate da Dio: alleanza con Noè, alleanza con Abramo, alleanza con Mosè e i 10 comandamenti, alleanza con Ezechiele, alleanza col nuovo spirito cantato dal profeta Gioele. Una alleanza che va rinnovata. Nei Vangeli, invece, ci accompagnano soprattutto i Vangeli di Giovanni (o meglio siamo nell’anno di Marco ma le prime due domeniche in tutti i tre anni della Quaresima sempre dedicate al tema delle tentazioni della prima domenica e al tema della trasfigurazione la seconda domenica). Le altre tre domeniche, che invece variano ogni anno, sono appunto prese dal Vangelo di Giovanni, dove abbiamo la purificazione del tempio (III), il dialogo con Nicodemo o meglio il tema del di Gesù innalzato sulla croce come il serpente innalzato nel deserto (IV), l’immagine del seme caduto in terra che muore porta frutto (V).  Quindi, qual è lo scopo  delle letture e delle liturgie domenicali del tempo di Quaresima? Quello di riformare il discepolo. Il discepolo si ristruttura o si ripensa nel suo discepolato dietro a Gesù attraverso la parola di Dio. Sicché siamo chiamati a seguire Gesù nelle sue tentazioni, noi tentati come Gesù tentato, noi trasformati/trasfigurati come Gesù trasfigurato e poi noi che dobbiamo purificare la nostra immagine di Dio e noi che siamo chiamati a ricomprendere i misteri della salvezza di Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo figlio, dice Gesù a Nicodemo.  Infine, seguendo Gesù, siamo chiamati a prendere in considerazione anche il dono totale di noi stessi come seme caduto in terra. Quindi è un percorso di riscoperta del nostro essere discepoli dietro al Signore e da ultimo ricordiamo anche che la Quaresima non si comprende se non alla luce della Pasqua e del tempo di Pasqua.  Come afferma il liturgista Andrea Grillo, non sono solo 40 giorni, ma sono 40+3+50.  40 giorni di Quaresima, 3 giorni del triduo Pasquale che esplodono nei 50 giorni del tempo Pasquale; quindi, è un tempo che ci inizia alla Pasqua. Il tempo di Quaresima finisce col Giovedì Santo; seguono tre giorni di Pasqua (perché il triduo sono tre giorni di Pasqua riletti sotto tre prospettive diverse) che esplode nella domenica di Pasqua e che si perpetua – come un’eco – per 50 giorni. Fino a Pentecoste viviamo 50 giorni di vita Pasquale dove l’energia del risorto riforma la comunità.

Perché un bambino è nato per noi?

Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.

(Isaia, 9, 5)

La pace sembra oggi sempre più fragile e prossima a spezzarsi definitivamente. In tante, troppe parti del mondo, venti di guerre, conflitti, tensioni e rivendicazioni soffiano prepotenti.

Non ci sono solo le drammatiche guerre in Ucraina e in Terra Santa, dove assistiamo quasi con indifferenza alla uccisione di tante persone e alla rovina del futuro di questi popoli, ma sentiamo anche minacce di nuove guerre, di invasioni, di “soluzioni definitive” ai problemi dei profughi, che sembrano echeggiare le “soluzioni finali” proclamate dai regimi nella prima metà del ‘900.

Per chi invoca maggiori interventi militari, un incremento di spese belliche e sostegno ai soldati al fronte.

A chi proclama il “diritto a difendersi con ogni mezzo”, a salvaguardare la propria identità e il proprio patrimonio storico e culturale contro chiunque lo minacci, il Natale…, ogni anno, risponde con il segno più fragile e più semplice: un bambino.

Mi verrebbe da pensare che anche allora, come oggi, difronte alla profezia di Isaia, molti abbiano sorriso, scosso la testa, ironizzato su queste parole di speranza.

Chi oggi invita a deporre le armi, a trovare vie di riconciliazione, viene visto come ingenuo, incapace di stare nella realtà, intento ad invocare soluzioni impossibili.

Abbiamo bisogno davvero di un bambino. Abbiamo bisogno del Natale. Abbiamo bisogno, cioè, di un ribaltamento, che ci faccia guardare la realtà con occhi diversi, non ingenui, né incantati, ma capaci di cogliere la bellezza dell’umano.

“Troverete un bambino avvolto in fasce” annunciano gli angeli ai pastori. Niente di più, niente di meno. Ma è proprio questo che siamo chiamati a contemplare. È proprio un bambino sul quale siamo chiamati a tenere fisso il nostro sguardo. Non per farci commuovere dalla zuccherosa tenerezza di un bambinello, ma per recuperare lo stupore per l’umano, l’interrogativo che scaturisce da una vita fragile che nasce e che ci viene affidata.

La pace nasce dalla disponibilità a tornare a guardare gli altri come uomini e donne, e non come numeri o come problema, come combattenti di una fazione o di un’altra, come costi sociali da ridimensionare.

Se siamo chiamati a cercare e trovare un bambino è perché abbiamo bisogno di recuperare la grammatica dell’umano e dell’esistenza, fatta di parole come vita, cura, futuro, accoglienza, impegno, responsabilità…

Abbiamo bisogno di tornare ad incrociare volti concreti, mani che cercano e piedi che scalpitano, bocche che parlano e occhi che interrogano.

La “prima pace”, quella disponibile e a nostra portata, nasce da qui: dal rinnovare il nostro sguardo senza infantilizzare Dio, ma vivendo da credenti adulti.

Imparare ad attendere

di Lidia Maggi, in “Riforma”, 2008

Fermiamoci un attimo. Prendiamoci un po’ di spazio per riflettere sul tempo. Come viviamo il tempo?
La domanda può sembrare un po’ astratta, una questione da filosofi. Ma è davvero così? Come raccontare le nostre storie senza fare i conti con il tempo, con la memoria del passato, col nostro presente, con le ansie e le attese future?

Parlare del tempo è parlare di noi, delle nostre vite. E riflettere su di esso significa interrogarsi sulla qualità della nostra esistenza. Come stiamo vivendo? Come scorrono i nostri giorni, i nostri anni? Immediatamente ci assale un dolore. Ci sentiamo lacerati perché vorremmo vivere i nostri giorni nella piena consapevolezza, dando priorità alle cose e alle relazioni che contano. E invece ci ritroviamo a correre, a non avere mai abbastanza tempo per le persone che amiamo. Riflettere sul tempo è prima di tutto un atto doloroso che scatena sensi di colpa, sentimenti di inadeguatezza. Il primo istinto è la rimozione che si manifesta qualche volta con la cinica rassegnazione C’est la vie. Bisogna correre, agire, produrre: essere all’altezza degli standard sociali. Non siamo felici di questo modo di vivere, ma è la realtà. Abitiamo questo tempo, siamo figli di questa epoca. Non si può vivere fuori dalla storia. E così il tempo che dovrebbe dischiudere le promesse si presenta come minaccia, se non come aguzzino che ci tiene in ostaggio. Un ritmo che non ci appartiene, imposto da una società che valuta le persone per le loro performance, per la capacità di saper sfruttare al meglio il proprio tempo. Il tempo è denaro. E dunque affrettati, il tempo scade. Non puoi permetterti di perdere tempo, cogli al volo l’oggi, l’attimo fuggente.

Attendere, prego

La nostra società negli ultimi decenni ha subito tante trasformazioni, ma sul tempo ha mantenuto dei punti fermi: massimalizzazione dei profitti. La tecnologia ha quasi totalmente annullato i tempi morti. Le distanze si fanno sempre più brevi grazie alla rete, ai mezzi di trasporto sempre più veloci. Spendiamo i nostri giorni in una società che promette tempo e invece il tempo lo consuma. Le nostre biografie, così spremute, risultano accelerate, se non schiacciate sul presente. Non c’è tempo per la memoria, per ricordare, per rielaborare il vissuto.
Noi siamo l’oggi che incalza e ci toglie il fiato. Probabilmente è anche perché siamo così sbilanciati sull’immediato che fatichiamo a ritrovare una progettualità, a guardare al domani con sentimenti di speranza e attesa.
Il tempo corre tiranno in una società dove tutto viene vissuto con ritmi accelerati e attendere significa perdere tempo. È forse per questo che proviamo un senso di fastidio bloccati nel traffico, nelle file alla posta o quando veniamo lasciati in attesa al telefono: «attendere prego!».
Viviamo i tempi di attesa come un insopportabile ostacolo alla corsa della vita. Che il movimento sia interrotto dalla sosta, che le parole siano minacciate dal silenzio, che il fare sia costretto a lasciare il posto al pensare: tutto questo ci sembra un’inutile perdita di tempo.

Tutto e subito

Perché del resto attendere quando possiamo avere tutto e subito? Perché attendere per comperare una casa, avere una macchina o più banalmente per goderci una bella vacanza? Basta un mutuo, un prestito, comode rate… Non si vuole banalizzare la fatica di chi non avendo una casa e non riuscendo a trovare un affitto, è costretto ad accedere all’abitazione solo attraverso il mutuo. Ma non possiamo tacere i rischi racchiusi in una cultura che valorizza il presente a scapito del futuro, di un mercato che ti affascina con l’offerta di un prestito e ti convince che tu puoi comperare qualsiasi cosa anche se non hai i mezzi. I desideri si riducono così a bisogni da soddisfare nell’immediato. Non c’è più capacità di attesa, né tantomeno discernimento di priorità. È una nuova schiavitù quella che vincola tutti coloro che accedono a prestiti e sono costretti a vendere il proprio tempo futuro per

pagare ciò che hanno consumato nel presente. È poi così diversa la nostra condizione da quella di quegli ebrei che, nella Bibbia, non potendo saldare il proprio debito, erano costretti a consegnarsi come schiavi ai loro creditori? Non più di sette anni però poteva durare tale servizio. I nostri mutui, generalmente, durano quattro volte di più.

insegnaci a contare i nostri giorni

Come stiamo vivendo? Siamo così immersi in ciò che facciamo che la prospettiva di fermarci, di interrompere il flusso delle tante attività ci mette panico.
Che valore diamo al nostro tempo? Quali attese ci abitano? «Insegnaci a contare i nostri giorni» prega il salmista. Perché noi siamo fatti di giorni, quelli che abbiamo già abitato, il tempo dell’oggi e quello dell’attesa futura. Meravigliose creature, tessute di continuità e cambiamento. Fragili come clessidre di cristallo. E così facile che le nostre vite si crepino nella corsa e la sabbia si disperda trasformando in deserto i nostri giorni.

Le chiese che frequentiamo? Sono il nostro specchio. Quante attività proponiamo alla città, alla comunità senza davvero interrogarci sul senso del progetto. Preoccupati di fare, di riempire l’agenda.
Si può vivere anche un’intera vita di fede all’insegna delle tante cose da fare.

E non ci viene in aiuto una certa teologia che ha insistito troppo sul compimento delle promesse (in Gesù è finita ogni attesa), dimenticando l’invito di Gesù a vegliare ad attendere la sua venuta, i nuovi cieli e la nuova terra… Riscoprire nella fede una tensione tra promessa e compimento ci aiuta a curare un po’ della nostra miopia, ci strappa dall’immediato per ampliare il nostro orizzonte.

Una spiritualità dell’attesa

La sfida è dunque quella di imparare di nuovo la «grammatica dell’attesa», svuotandoci un po’ della nostra fretta e delle nostre sicurezze e lasciando spazio a quel Dio che vuole sorprenderci. Potrebbe essere un itinerario per il tempo di Avvento, un modo per prepararci al Natale e, un po’ più in là un aiuto per riconciliarci con i ritmi delle nostre vite, ridefinendo le priorità e ritrovare il respiro della vita.

“Sinodalità, serve una spinta di comunione”

di Mimmo Muolo in “Avvenire” del 24 ottobre 2023

Il Sinodo «non è una questione di aggiustamenti o riposizionamenti interni alla Chiesa. Un Sinodo così inteso è destinato a incidere davvero poco. Ce lo ricorda continuamente il Papa». Al contrario «una Chiesa che fa suo il metodo e i contenuti del cammino sinodale e che non smette – in tutti i suoi membri – di essere aperta all’azione dello Spirito in ordine alla realizzazione della comunione, è una Chiesa che può contribuire con maggiore credibilità a rendere migliore questo mondo».

Parola del vescovo Nunzio Galantino, che ha citato il teologo Yves Congar: «in molti persiste implicita l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare. E invece è tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa». Ne consegue che «la conversione invocata, prima del cambiamento delle strutture, richiede la maturazione di una spiritualità del “noi” ecclesiale». E dunque anche la sinodalità «richiede attitudini spirituali, che vanno coltivate e che non possono essere estranee ai percorsi di formazione di laici e ministri ordinati». In altri termini serve «una spiritualità della sinodalità che fa, di fatto, riferimento a una spiritualità di comunione, criterio di appartenenza alla Chiesa». Secondo Galantino, «coltivare tale spiritualità consente di vedere e vivere la Chiesa in una prospettiva dinamica, cioè in cammino». Prende forma in sostanza «una Chiesa inclusiva e non competitiva, che prende in considerazione la diversità dei carismi e pone l’accento sulle relazioni, sul dialogo, sulla corresponsabilità, sulla reciprocità e circolarità fra tutti i poli ecclesiali». Ciò significa che «al di là della sinodalità formale, che si dispiega nelle strutture e nei processi istituzionali come i consigli pastorali, i sinodi o i concili – ha proseguito il vescovo -, l’appello a camminare insieme e riunirsi in assemblea del popolo di Dio deve esprimersi nel modo ordinario di vivere e di operare della Chiesa. In modo da favorire e sviluppare la partecipazione e la corresponsabilità di tutti».

La conversione dunque riguarda sia i laici che i sacerdoti. Per i primi, ha spiegato Galantino, «si tratta di passare dalla dipendenza all’assunzione della responsabilità, che nasce dal battesimo. Per i presbiteri si tratta di passare dall’organizzazione alla riscoperta della dimensione della paternità».

Nella difficile stagione che stiamo vivendo, la questione del laicato è, a parere del vescovo, una delle più delicate. «La conversione richiesta oggi ai laici, nella prospettiva di una Chiesa sinodale, è quella di riscoprire e vivere il senso della corresponsabilità che si nutre di amore per la propria comunità, nella quale sono chiamati a portare il sapore dell’esperienza della vita». Ma perché questo avvenga e «nei laici si susciti una nuova volontà di impegno creativo – ha sottolineato il vescovo – occorre che essi si sentano partecipi di una comunità nella quale sono qualcuno, sono riconosciuti; debbono sentire che la loro presenza è desiderata e apprezzata».

Per i preti, invece, «la conversione parte da un serio percorso di formazione». Una formazione «che sradichi il fascino sempre più diffuso della logica accentratrice, per spingere verso uno stile paterno di conduzione della comunità. La paternità genera. E quando esercita l’autorità è per far crescere e non per far andare le cose secondo il proprio modello». Essere padri «significa guardare con fiducia ai propri figli, credere che anche loro “sanno fare qualcosa di buono” e permettere loro di farlo vedere, permettendo loro anche di sbagliare, aiutandoli a ricominciare, senza giudicarli e senza umiliarli». «Finché questo non diventa stile – ha concluso Galantino – la sinodalità stenterà a farsi strada».