Al di là dei loro mezzi (2 Cor 8,3)

dalla lettera pastorale del vescovo Erio per l’anno 2018-2019

Le nostre povertà personali e comunitarie. Oggi prevale spesso nelle relazioni l’arroganza: il modello automobilistico, per cui il guidatore facilmente sbraita verso l’altro guidatore, verso il pedone o il ciclista, aggredendoli sproporzionatamente, è stato esportato nei salotti televisivi, dove l’audience la fa da padrona e impone di azzuffarsi, attaccando l’avversario con slogans incisivi, forti e spesso anche offensivi. Contemporaneamente questo modello, dall’auto ai salotti televisivi, si è trasferito nel dibattito politico. Ciò che più addolora, comunque, è che l’aggressività automobilistica, poi salottiera, poi partitica è entrata massicciamente anche nelle comunità cristiane, al punto da costituire anch’essa una “povertà”. Litigi tra collaboratori parrocchiali fondati sul nulla, consigli pastorali simili ad un’assemblea di condominio, riunioni tra gruppi dove sembra prevalere la logica sindacale, raccolte di firme contro qualcuno o in difesa di qualcun altro: non sono esperienze inventate e non sono purtroppo nemmeno rarissime. Sono fragilità che rattristano e svigoriscono l’annuncio del Vangelo.

Esiste nella Chiesa cattolica di oggi un’altra “povertà”, che personalmente avverto non meno dannosa: il ripetersi degli attacchi violenti a papa Francesco e al suo magistero, al quale vengono accomunati i vescovi e presbiteri definiti sprezzantemente “bergogliani”. È un grande danno per la Chiesa, del quale spero che prima o poi chi lo compie si renda conto. È un atteggiamento a volte aperto e a volte subdolo, mascherato da difesa di una “verità” che viene portata avanti in modo arrogante, a colpi di accuse e sospetti. Chi assume questa posizione non si rende forse conto (almeno spero non si renda conto) che è una condotta mondana, perché l’arroganza è uno dei comportamenti meno evangelici che esista. Gesù ha detto parole forti e chiare nei contenuti, raccomandando la mitezza nello stile. Pretendere di sondare la coscienza degli altri e agitare la verità come se fosse un’arma è contraddittorio, poiché la verità cristiana è la persona stessa di Gesù (cf. Gv 14,6), che è venuto non a condannare ma a salvare il mondo (cf. Gv 12,47). Con questo non intendo ovviamente negare il diritto di critica, ma affermare la necessità di una critica rispettosa e costruttiva, specialmente verso il vicario di Pietro, nel quale la Chiesa riconosce il carisma della custodia della fede. Sarebbe un grande vantaggio per l’esperienza cristiana se almeno una parte delle energie che alcuni pongono nell’attaccare i fratelli di fede e il magistero cattolico venissero convogliate nell’annuncio del Vangelo e nella testimonianza della carità.

Prima di passare a qualche spunto di speranza – e ce ne sono tanti – non posso però fare a meno di menzionare ancora una povertà che vive (anche) la nostra comunità diocesana: c’è troppa divisione tra di noi. La diversità, contenuta entro i limiti della legittimità, è una ricchezza; la divisione è sempre una povertà. Io sono convinto che un’iniziativa pastorale “di successo” sia in realtà fallimentare, dal punto di vista ecclesiale, quando diventa divisiva; e che viceversa un’iniziativa pastorale apparentemente “debole” sia in realtà efficace, dal punto di vista ecclesiale, se lega e unisce. Una delle grandi povertà che vive la nostra Chiesa, insieme a molte altre Chiese, è l’individualismo pastorale: alcuni operatori, magari dotati di alcune qualità e tanta buona fede, procedono come cavalieri solitari, convinti di fare il bene della comunità, ma finiscono per dividerla. Nel presbiterio, nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nella comunità diaconale, è essenziale recuperare l’apprezzamento dei doni altrui, se vogliamo costruire il corpo di Cristo.

La parrocchia 2.0. Lo scoraggiamento di fronte a queste e molte altre “povertà” rischia di favorire nelle nostre comunità un atteggiamento di dimissione, mentre il Signore ci chiede la missione. Ci si può dimettere dall’esperienza cristiana sia diventando dei crociati che vedono nemici dovunque, sia diventando dei camaleonti che si mimetizzano nel mondo. Il Concilio Vaticano II, riprendendo e rilanciando la dottrina cattolica, ha plasmato la figura di una Chiesa che non si contrappone al mondo, ma neppure vi si accomoda: piuttosto vi si pone dentro con l’umiltà di chi riconosce i propri limiti e la forza del Signore, dialoga criticamente con tutte le culture e religioni e annuncia gioiosamente la bellezza di appartenere a Cristo. La Costituzione sulla Chiesa ha definito i cristiani “tutti coloro che guardano con fede a Gesù” (LG 9); la Chiesa, cioè, non è una realtà che scorra accanto al mondo o sopra di esso, ma è l’insieme di quegli uomini e quelle donne che aderiscono a Gesù come loro Signore; è, per così dire, una “fetta di mondo” formata da chi crede nella presenza di Gesù risorto. Chiesa e mondo non sono contrapposti, ma si intrecciano: la Chiesa porta nel mondo la parola e la grazia del Signore e il mondo offre alla Chiesa istanze, domande ed esperienze che la interrogano e la aiutano a comprendere, vivere e testimoniare più profondamente la parola e la grazia.