L’importanza di dire “no” per spegnere l’auto-pilota e fare spazio alla vita

L’intervento che inaugura Torino Spiritualità 2018  di Asha Phillips  in “La Stampa” del 26 settembre 2018

Nel 1999 ho scritto un libro intitolato I no che aiutano a crescere, a proposito dell’importanza del dire di no nel contesto familiare e soprattutto in relazione ai bambini. Da allora, mi sono resa conto che la mia interpretazione di ciò che quel tipo di negazione significa è in effetti valida anche per i rapporti tra adulti e, cosa ancor più importante, e con il nostro io. Spesso, infatti, tendiamo a operare secondo automatismi avventati, irriflessi, sia nei comportamenti sia nei sentimenti e, in particolare, nell’atteggiamento verso noi stessi. L’idea del dire «no» è in genere associata all’egoismo, a una qualche barriera contro la connessione, alla forza. Per me invece rappresenta il prendersi una pausa, il non procedere in modo meccanico, per abitudine o sotto la pressione del nostro mondo interiore e di quello esterno. Quando diciamo no alle reazioni immediate creiamo uno spazio in cui connetterci con il momento presente, per riconoscere ciò che sta accadendo e operare una scelta su come comportarci: questo processo rende possibile instaurare un contatto e un coinvolgimento autentici con noi stessi e con gli altri. La modalità di comportamento in «auto-pilota» può senza dubbio essere molto comoda, aiutandoci a gestire gli impegni comuni e quotidiani, ad essere efficienti e rapidi, ma comporta numerosi svantaggi nel caso sia l’unico nostro modo di agire. Lo stesso accade con le abitudini mentali: è solo per una personale consuetudine che persistiamo nell’imboccare le solite strade già battute, nonostante si siano dimostrate inutili: giriamo in tondo senza arrivare da nessuna parte. Quando la mente opera secondo modi abituali è assai probabile che funzioni in forma ripetitiva, circolare, rimuginando, il che evidentemente ha un  impatto sulla nostra esperienza emozionale, causando spesso rabbia e autocritica. Sono due le forme di sofferenza alle quali in genere facciamo riferimento. La prima deriva da quegli eventi che inevitabilmente la vita pone sul nostro cammino: ferite, rifiuti, tradimenti, delusioni, infortuni, malattie, perdite, separazioni… la lista è infinita. Questa è la prima freccia, quella del dolore, rispetto alla quale non possiamo fare nulla. È importante sottolineare che spesso è accompagnata da un disagio sia fisico che psicologico: mal di testa, spalle irrigidite, sensazioni di nausea, costrizione nella zona del petto o del cuore, un senso di pesantezza in tutto il corpo, ecc. La seconda forma di sofferenza dipende, invece, da come reagiamo a quel primo dolore: incolpiamo noi stessi o gli altri? Proviamo rabbia o autocommiserazione? Ci domandiamo «perché io»? Può capitarci di entrare in un circolo vizioso, talvolta senza controllo, in una spirale di auto-criticismo o recriminazione nei confronti degli altri, o di lanciarci in attività che intorpidiscono o anestetizzano il dolore. I pensieri vorticano intorno all’idea di colpa o di come le cose dovrebbero o potrebbero essere diverse, ed è fin troppo facile sprofondare nei meandri più logori della nostra mente. Questa è la freccia auto-inflitta della sofferenza. In queste situazioni rischiamo di perdere la consapevolezza del momento, come pure la libertà di scegliere quale azione, se occorre, è meglio intraprendere: il primo passo per riguadagnare tale libertà consiste semplicemente nel riconoscere la realtà della nostra condizione, senza lasciarci subito prendere la mano dall’automatica tendenza a voler giudicare o aggiustare le cose, o a desiderare che siano diverse da come che sono. Dire «no», a mio avviso, somiglia al premere il pulsante «pausa»: il nostro «auto-pilota» si ferma e ci offre l’opportunità di entrare in contatto con il momento presente. Sintonizzandoci con i nostri pensieri, sentimenti ed emozioni, riusciamo a riconoscere quello che ci sta accadendo e quindi acquisiamo la libera facoltà di scegliere il modo in cui agire. Nella cultura di oggi si pone grande enfasi sul «fare» e assai poca sull’«essere»: i miei studi, e ora la mia pratica di insegnamento della consapevolezza, mi hanno portata ad apprezzare invece l’importanza dell’esperienza del «qui ed ora», rispetto al lasciarsi sempre guidare da eventi passati o da un qualche futuro ideale. Questo spesso significa dire «no» alla pressione della società affinché si agisca in modi consoni, all’opinione comune secondo cui veniamo giudicati in base ai nostri risultati concreti (soldi, status, proprietà, ecc.) e il successo consiste in ciò che facciamo piuttosto che nel tipo di essere umano che siamo. Eppure noi siamo esseri umani, non agenti umani. La mia convinzione è che quando siamo più in sintonia con l’esperienza del presente, quando diciamo no all’andare avanti in modo irriflesso, al soddisfare le aspettative perfezioniste sia nostre che degli altri su chi dovremmo essere, stiamo compiendo un atto di gentilezza, di generosità, nei confronti di tutti, noi compresi: per relazionarci ed entrare in connessione con gli altri, abbiamo bisogno di essere noi stessi. Solo quando siamo in armonia con il nostro io possiamo, infatti, riconoscere l’umanità che ci accomuna, comprendere che fondamentalmente ogni essere umano vuole essere protetto, amato, in salute e felice. Solo se siamo davvero noi stessi possiamo autenticamente relazionarci agli altri. In tutto questo, dire di no è un modo per trovare nuove soluzioni, è la forza necessaria al cambiamento.