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Abbiamo sempre saputo tutto

di Francesca Mannocchi, La Stampa, 27 maggio

Quand’è che il troppo è troppo? Quando il disprezzo del diritto internazionale diventa intollerabile? Dopo quanti bambini massacrati, uccisi, bruciati vivi, mutilati? Dopo quante denunce tacciate di antisemitismo si può alzare la testa e dire che no, non è antisemitismo affatto, è ostinazione a credere nel diritto. È non rassegnarsi alla realtà manipolata. Erano già troppi dieci bambini uccisi. Ora sono 20mila. Erano già troppi cento civili uccisi. Ora sono 54mila. Eppure, si dirà, il vento sta cambiando. Cambiano i titoli dei giornali, l’indignazione è diffusa, la condanna ai crimini di guerra è sentimento comune.

Eppure rischia di essere tardi. Tardi perché a Gaza si sta consumando la crisi della nostra umanità e l’Occidente sta perdendo se stesso. È tardi perché per 19 mesi abbiamo sempre saputo tutto. Tardi perché anche 18 mesi fa e poi 15 e poi 12 e così via, si poteva discutere della sospensione degli accordi di associazione Ue-Israele, o si potevano interrompere le esportazioni di armi che invece si continuano ad autorizzare. Si potevano negare i diritti di sorvolo agli aerei di Netanyahu, sotto inchiesta della Corte penale internazionale. E invece.

Abbiamo sempre saputo tutto. Le Nazioni Unite presentano ogni settimana i dati aggiornati sulla situazione nella Striscia di Gaza. Per 11 settimane, tra il 2 marzo e il 18 maggio, nessun aiuto umanitario è entrato nella Striscia di Gaza per l’assedio imposto dalle autorità israeliane. Tradotto significa che non c’era cibo, né carburante per far funzionare i generatori di corrente necessari ai pochi ospedali rimasti attivi, che non sono entrati aiuti medici, né anestesie, né antidolorifici. Che aumentano i bambini malnutriti. Poi il 19 maggio, anche a Tel Aviv qualcuno si è reso conto che sta cambiando un po’ il vento, e Netanyahu ha dichiarato che avrebbe fatto entrare degli aiuti. Dieci camion, il primo giorno, in un luogo in cui prima dell’inizio dell’offensiva militare ne servivano quotidianamente 500. E cosa succede se dopo 80 giorni, che non entra un grammo di farina, dieci camion raggiungono Gaza? Che i camion vengono assaltati. È inevitabile. Si chiama fame. Far entrare dieci camion in un luogo dove ne servirebbero centinaia è l’ennesimo oltraggio a una popolazione in ginocchio, una provocazione, un disordine voluto per dire: vedete? Dobbiamo militarizzare gli aiuti umanitari.

Abbiamo sempre saputo tutto, abbiamo avuto dati aggiornati sulle malattie e la fame, sulla conta dei morti e dei feriti, abbiamo visto amputazioni in diretta, e in diretta il recupero dei cadaveri. Abbiamo saputo sempre tutti che le cifre di morti e feriti fossero stime al ribasso e non gonfiate. E prima che sia troppo tardi, prima che i 20mila bambini morti diventino 30mila, dobbiamo mantenere tutta la razionale fermezza di cui siamo capaci per dire che sapevamo tutto, abbiamo sempre saputo tutto e dobbiamo fermare questo massacro.

“Stabat mater”: Il dolore e la speranza delle madri

Messaggio per la Pasqua di Mons. Erio Castellucci

Stabat Mater dolorosa”… la famosa sequenza, attribuita a Jacopone da Todi (XIII sec.), messa in musica tra gli altri da Pierluigi da Palestrina (XVI sec.), riecheggia la scena del Vangelo di Giovanni che inizia proprio così: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala” (Giovanni 19,25). Non erano fuggite, come quasi tutti i discepoli, ma stavano lì, nel momento del dolore supremo; e non si erano accasciate, ma rimanevano in piedi: l’evangelista usa un verbo che indica proprio questa dignitosa posizione. La sofferenza delle madri, nei millenni, è smisurata. Un simbolo eloquente è la Plaza de Mayo, a Buenos Aires in Argentina, che tra il 1976 e il 1983 ha visto centinaia di madri dei desaparecidos sfidare coraggiosamente la dittatura militare, per chiedere la liberazione dei loro figli arrestati e torturati. Ma quanti milioni di madri, nell’arco della storia umana, restano in piedi sotto la croce dei loro figli! Le madri dei bimbi morti per fame, sete o malattia; le madri degli adolescenti e dei giovani che si tolgono la vita o sono vittime di incidenti; le madri dei soldati di tutte le guerre, che li vedono partire senza poterli riabbracciare. E le madri che salutano i figli affidandoli al mare, senza sapere se saranno vittime di naufragio o giungeranno al sicuro. Una lista davvero dolorosa e drammatica, che non finirebbe più.

Ciascuna di loro è racchiusa in Maria, la “mater dolorosa”.

La Pasqua non è però solo il buio del venerdì santo; è anche e soprattutto l’alba della domenica. Per preparare discepoli alla sua morte e risurrezione, Gesù ha offerto proprio un’immagine materna: “la donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Giovanni 16,21). L’esperienza del parto è passione e gioia assieme, sofferenza e speranza nello stesso evento. Solo le madri lo sanno: per questo la morte del figlio è per loro quanto di più innaturale si possa vivere, quasi un parto alla rovescia. Ma le madri sanno inserire dei punti di luce nel dolore. Poco dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, il web diffuse un breve video che scosse milioni di persone: un giovane soldato russo in lacrime, fatto prigioniero ed evidentemente traumatizzato, è attorniato da ucraini che gli porgono un the caldo; alla sua destra una donna tiene un cellulare davanti alla bocca del giovane, che così può rassicurare sua madre facendole sapere che è vivo. La donna ucraina ha lo sguardo della madre, che vede in quel soldato non un nemico, ma un figlio.

Donna, ecco tuo figlio”: Gesù consegna a sua madre un altro figlio, il discepolo amato, che la prende nella sua casa: “ecco la tua madre” (cf. Giovanni 19,26-27). Solo il Signore può trasformare una croce in una culla, un sepolcro in una casa, un luogo di morte in un luogo di vita nuova. Dalla distruzione di una famiglia, nasce nella Pasqua una nuova famiglia. È l’indomabile speranza cristiana, che non annulla il dolore, non cerca (inutilmente) di aggirarlo, ma lo abita mantenendo accesa una luce: la certezza che l’amore, alla fine, vince. Sotto la croce di Gesù, Maria è come se vivesse una seconda volta le doglie del parto, in attesa della risurrezione, vita che vince. E sarà, oltre che la madre di Gesù, anche la madre del discepolo amato, cioè di chiunque di noi la prende nella sua casa.

La speranza delle madri è più forte di ogni violenza e si annida dentro ad ogni croce. La sequenza di Jacopone, iniziata con il dolore della madre, si conclude con l’espressione “paradisi gloria”. È la prospettiva della gloria, il lato domenicale della Pasqua, che sostiene la nostra speranza il venerdì e il sabato, mentre camminiamo nella storia. E ci sostiene con la testimonianza e la forza delle madri.

“Ordo amoris”

C’è un’ideologia perversa che pretende di trovare un sostegno teologico alle politiche discriminatorie e suprematiste messe in atto dall’attuale amministrazione Usa. Il concetto è stato espresso molto chiaramente da J. D. Vance, il vicepresidente Usa che dice di essere cattolico. “C’è un concetto cristiano che dice di amare la propria famiglia, – ha detto Vance – poi i propri vicini, poi la propria comunità, poi i propri concittadini e infine di dare la priorità al resto del mondo”.

Per sostenere questa tesi, il vicepresidente è andato a scomodare Sant’Agostino, di cui dice di essere un grande ammiratore, che parla di “ordo amoris”, ovvero di un ordine (gerarchico?) nell’amore.

In maniera pressoché diretta Papa Francesco ha risposto nella lettera indirizzata ai vescovi Usa scrivendo che “l’amore cristiano non è un’espansione concentrica di interessi che a poco a poco si estendono ad altre persone e gruppi”. Rifacendosi alla parabola del Buon Samaritano, ha poi affermato che il “vero ordo amoris” si basa sull’“amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni”.

Senza dubbio, se fosse come dice Vance, personalmente non esiterei ad abbandonare la religione cristiana, ma per grazia di Dio credo che il Papa interpreti bene il pensiero di Agostino che intendeva dire tutt’altra cosa e che sicuramente non ha mai affermato che bisogna amare alcuni maltrattando altri.

Se fosse come dice Vance, Francesco d’Assisi e tutti i santi del calendario starebbero all’inferno.

ATTESA

L’installazione artistica sulla lunetta dell’ingresso della Basilica di San Cesario D.M.

Titolo: Attesa

Artista: Federico Manicardi

Materiali: coperte termiche; plastica; polistirolo

Anno: 2025

Non è facile alzare lo sguardo, soprattutto oggi. Il tempo che stiamo vivendo è un tempo frenetico, incerto, caotico. Spesso per non perderci o per non lasciarci travolgere dagli eventi stiamo attenti a dove mettiamo i piedi, a chi ci sta accanto e a quello che abbiamo davanti. Per essere pronti, efficienti, flessibili, veloci, i nostri occhi restano incollati alla terra, ma così facendo perdiamo di vista il fine delle nostre vite.
Non dalla terra, ma dal cielo arriverà la nostra speranza; non per nostri meriti, ma per un suo dono potremo contemplare il volto di Dio.

Gesù nel Vangelo lo rivela:
“Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,25-28).

Non è facile alzare lo sguardo, ma è possibile.
È l’unico modo per poter accogliere il ritorno del Figlio dell’uomo e la liberazione che lui ci offre.

L’installazione per questo tempo giubilare vuole aiutarci proprio a fare questo: alzare lo sguardo. La calda luce dorata delle coperte termiche ci invita ad alzare lo sguardo prima di varcare la porta della chiesa. Lo sconvolgimento degli astri, del cielo, delle nubi, evocati dalle forme morbide e vorticose non annunciano la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di nuovo. Il segno della croce, il luogo in cui si è pienamente rivelato il Figlio dell’uomo, è lì per annunciarci che la nostra liberazione è vicina: non perdiamo la speranza!

Col Natale Dio ha cambiato indirizzo

Nel dicembre 2022, in contesto ancora pandemico, usciva “Don’t look up” (“Non guardate in su”), un film che narra la scoperta da parte di due scienziati astronomi di una cometa che si rivela – ben presto – diretta verso la terra e destinata a distruggerla. Nel tentativo di comunicare al mondo l’imminente catastrofe si palesano ben presto due schieramenti: chi si lascia interpellare da questo evento e chi, invece, come la politica, preferisce negarlo, ignorarlo, fingere che non sia un problema, o tutt’al più sfruttarlo per i propri interessi economici. Da qui lo slogan che la politica e i media rimandano costantemente: “Don’t look up” – “Non guardate in alto” – non lasciatevi interrogare, preoccupare o distrarre dai segni nel cielo, ma tenete lo sguardo ben fisso a terra, alla vita ordinaria e frenetica.

Questo invito, purtroppo, non eviterà l’impatto.

Il film ha fatto molto discutere per i molteplici significati e tematiche che lo attraversano. Qualcuno ha voluto leggerci anche le conseguenze della superficialità umana che non accetta di lasciarsi interrogare dai temi della vita, come la morte, il senso dell’esistenza, la responsabilità verso gli altri e verso se stessi. Si preferisce evitare di scrutare il cielo, di interrogarsi sui segni che la realtà ci manda. Si preferisce “fare finta” che non stia accadendo nulla di tragico nel mondo.

2000 anni fa, invece, qualcuno ha accettato la sfida di alzare lo sguardo e lasciarsi interrogare dall’apparire improvviso di una cometa.

Il Natale, infatti, non è invito a guardare il cielo per distogliere l’attenzione dalla terra, dai suoi drammi e dalle persone che ci vivono. Non è nemmeno ripiegarsi su se stessi, sul consumo sfrenato delle cose di oggi per trovare sollievo, anche solo per pochi giorni. Entrambe le strade sono “evasioni” dalla vita, in un modo o nell’altro.

Il Natale è invito a scrutare il cielo coi piedi per terra, come i Magi, che si sono lasciati interrogare dai segni senza fuggire in un mondo immaginario.

E se allora i pastori furono invitati a farsi affascinare dal coro degli angeli, dallo scintillare quasi accecante di una luce avvolgente, era solo perché il loro sguardo si posasse, presto, su un bambino.

La gioia e le luci natalizie, che avvolgono il nostro paese, ci invitano a “fare luce” sulle tenebre che oscurano tante realtà che sono accanto a noi e quelle che – purtroppo – affliggono tanti nel mondo.

La luce di un bambino, la verità di una umanità semplice e aderente alla terra, ci dicono che sono le persone in carne ed ossa a chiedere salvezza. Sono queste persone, come siamo noi, e le loro storie ordinarie a domandare pace e solidarietà.

Davanti ai potenti che preferiscono ignorare i “piccoli” e i fragili, che guardano ai numeri per confermare il loro potere, o che usano violenza per non perderlo, la carne fragile di un bambino ci ricorda che Dio non si accomoda tra i salotti dei dominatori, ma tra terra umida e polverosa dei diseredati.

Il Natale ci ricorda che Dio non è nel potere o tra i potenti. Se alziamo lo sguardo per cercare i “piani alti”, se lo cerchiamo lì, per il nostro senso di sicurezza o di tranquillità…, non lo troveremo. È tempo di guardare altrove. Perché da quella notte, Dio ha cambiato definitivamente indirizzo.

La speranza del Giubileo

di Luigi Sandri in “L’Adige” del 13 maggio 2024

«Possa il Giubileo essere occasione di rianimare la speranza». È questo l’auspicio che percorre l’intera bolla «Spes non confundit» con la quale papa Francesco ha indetto ufficialmente il Giubileo del 2025, che inizierà il 24 dicembre con l’apertura della «porta santa» della basilica vaticana e si concluderà il 6 gennaio 2026. Il Giubileo ha origine dalla tradizione ebraica che lo fissava ogni 50 anni e aveva precisi obiettivi:

–  la terra doveva essere lasciata riposare (con lo scopo pratico di rendere più forti le successive coltivazioni),

–  la remissione dei debiti,

–  gli schiavi dovevano riacquistare la libertà e tornare alle proprie case.

L’annuncio del Giubileo veniva dato nel tempio di Gerusalemme dal suono dello shofar, cioè un corno di ariete, in ebraico yobel, da cui deriva il termine Giubileo. Le indicazioni sono tratte dal libro del Levitico al capitolo 25: “Conterai sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai squillare la tromba dell’acclamazione; nel giorno dell’espiazione farete squillare il corno per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo”. (Lv 25, 8-13)

Non è ben chiaro se e come gli ebrei abbiano celebrato il Giubileo; è certo, comunque, che le Chiese cristiane per oltre un millennio dimenticarono l’idea. Fu papa Bonifacio VIII, nel 1300, a indire il primo Giubileo. Esso, però, scordato quello biblico, aveva come scopo principale il pellegrinaggio per venire a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, e «acquistare» così le indulgenze. L’Europa fu percorsa da un enorme fremito: pellegrini da tutti i paesi si misero in cammino (chi a cavallo e chi a piedi) per raggiungere la Città eterna: lo stesso Dante Alighieri vi partecipò, e ne parlò nella Divina Commedia. Ma, se per Bonifacio la «Grande perdonanza» doveva avere una scadenza centenaria, poi altri papi la fissarono ogni venticinque anni. I Giubilei, lungo i secoli, si svolsero con questa scadenza, salvo in caso di guerra.

L’Anno Santo è tempo di grazia, momento per risvegliare la fede e le coscienze. È l’anno della remissione dei peccati e delle pene, è l’anno della riconciliazione tra avversari, è l’anno della conversione e della penitenza, è l’anno della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno per servire Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. Bergoglio, nella sua bolla, invita tutti ad essere pellegrini-portatori di speranza, soprattutto verso i giovani e i carcerati, i profughi e i poveri. Ma ricorda anche i grandi drammi del mondo, in particolare le guerre: «è troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? E che le Nazioni più benestanti stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli?».

A conclusione della bolla di indizione del Giubileo papa Francesco scrive: «Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore».

Il vuoto: preludio di novità

A lungo, nel passato, si è fatto strada il principio dell’”horror vacui” che possiamo tradurre come “terrore del vuoto”; si tratta di un principio per il quale la natura stessa rifugge il vuoto e – pertanto – tende a riempirlo costantemente, come l’acqua tende a insinuarsi negli incavi, o l’aria ad occupare tutti gli spazi. Un principio che ha afferrato anche l’uomo, per il quale occorreva riempire ogni pagina bianca, o arricchire di ornamenti le pareti delle chiese o dei palazzi comunali. Anche oggi, l’uomo contemporaneo e tecnologico sembra essere afferrato nuovamente da questo terrore: dal vuoto di relazioni, al vuoto di rumori, fino al vuoto di informazioni, di “collegamenti”, di “visualizzazioni” al cellulare…

Anche il tempo vuoto sembra spaventare.

Per noi credenti, le chiese vuote del periodo del Covid e quelle (semi) vuote di questi anni ci spaventano e la principale preoccupazione è – da un lato – trovare soluzioni per frenare questa emorragia e – dall’altro – ritornare a quel tempo in cui il cattolicesimo riempiva ogni ambito della società.

Eppure, la Pasqua del Signore, l’evento centrale della nostra fede, si basa su un vuoto. Una tomba vuota che ha lasciato interdetti. Una assenza che ha lasciato smarriti i discepoli. Un vuoto, insomma, che non è stato immediatamente riempito, ma che ha richiesto pazienza, l’emergere dei dubbi, il fiorire di una timida fede per poterlo comprendere e dotare di senso.

Pietro, Giovanni, Maria Maddalena e – via via – i discepoli, hanno dovuto sostare davanti ad un vuoto senza poter offrire una parola che spiegasse. Anzi. Quando hanno provato a farlo, si sono scoperti incapaci, o – per lo più – impegnati a balbettare parole senza senso.

Solo una parola diversa ha potuto dare un significato a quel vuoto. La Parola di Gesù. 

Una Parola che ha fatto fatica a fare breccia nei cuori dei discepoli, troppo ripiegati su se stessi e sulle speranze svanite. Per questo il tempo di Pasqua, i cinquanta giorni che succedono alla domenica di Resurrezione, non è un tempo sospeso, o un tempo semplicemente di festa, ma lo “spazio” per lasciare che il dubbio di una tomba vuota diventi – in profondità – la fiducia in un nuovo inizio le cui gemme già si vedono sbocciare.

Per accettare i vuoti e renderli nuovamente grembi fecondi di vita occorre tempo, abbandonando l’ansia delle risposte frettolose e facilmente rassicuranti ma che cercano di fermare il passato invece che aprire al futuro. Dobbiamo sostare davanti ai tanti vuoti della chiesa e delle nostre vite e attendere fiduciosi una parola diversa, anche sconvolgente, paradossale e – forse – anche assurda.

Perché la resurrezione è l’imprevedibile che irrompe nei vuoti del mondo.

Buona Pasqua.

Il triduo pasquale

Nel fluire del tempo, la Chiesa celebra il Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, quale culmine di tutto l’anno liturgico, che illumina il senso di tutta la nostra vita cristiana.
Portale d’accesso a questi giorni santi è la celebrazione vespertina del Giovedì santo che commemora l’Ultima Cena, nel segno di una vita esposta, donata e consegnata: l’amore si fa servizio e dono, nel gesto di un Dio in ginocchio davanti agli uomini per lavare loro i piedi, e nel simbolo di un pane spezzato e del vino versato, profezia della consegna totale della vita. La liturgia del Venerdì santo sosta sul mistero della morte di Cristo e trova il suo centro nella Croce, strumento di morte, diventato luogo luminoso, in cui la gloria di Dio si manifesta nella debolezza mortale di un amore vissuto sino alla fine.

Nel Sabato santo, la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba: è il silenzio sospeso dell’attesa, della speranza contro ogni speranza, perché «questa non è notte, | se donne in segreto preparano aromi, | se le piante mettono | gemme di luce, | se gonfia è la terra | di luce sepolta, | in attesa dell’alba» (D. M. Montagna). Così la Veglia pasquale fa risuonare di nuovo l’Alleluia, nella luce del Cristo risorto, centro e fine del cosmo e della storia. «A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare… Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è “più notte”, è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all’alba del primo giorno della settimana» (papa Francesco).

Dalle “ceneri” a Pentecoste

Itinerario comunitario verso la Pasqua

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale ha pensato e condiviso un percorso che accompagni la nostra comunità lungo il tempo di quaresima fino alla celebrazione della Pentecoste.

Potete scaricare il volantino che presenta le iniziative proposte, cliccando qui

Riportiamo l’introduzione al percorso realizzato dal CPP

Visto che quest’anno abbiamo dedicato la nostra attenzione al tema del tempo, soprattutto a partire dalla festa di San Luigi anche con la preghiera del venerdì, questo dedicare tempo, dare tempo agli altri, dare tempo a Dio, pensiamo si leghi bene al tema della Quaresima, perché la Quaresima si caratterizza prima di tutto per essere un tempo.  

Il fatto che parliamo di 40 giorni significa mettere al centro il primato del tempo sullo spazio. Questo è anche uno dei principi portati avanti da tempo da Papa Francesco a proposito del fatto che i processi di cambiamento e di conversione sono fatti non per occupare spazi o dei vuoti, ma – al contrario – per svilupparsi nel tempo e per dare tempo perché queste trasformazioni avvengano realmente.

La Quaresima è prima di tutto un tempo, un tempo non tanto da occupare, da riempire; non è un tempo da dedicare a più preghiera o più cose o anche solo più sacrifici, come spesso abbiamo imparato a pensare, ma è un tempo dedicato, un tempo per fare spazio e per dare tempo, per accettare i tempi lunghi. La Quaresima, infatti, si sviluppa su 40 giorni: un tempo non troppo lungo, ma neanche troppo corto; un tempo – in fondo – che non puoi dominare. Il tempo della Quaresima è un tempo che non domini interiormente, che non riesci a padroneggiare perché va oltre la nostra percezione immediata del tempo. Noi riusciamo a percepire generalmente un giorno, una settimana, dieci giorni forse, un mese.

Quaranta giorni è più difficile da percepire interiormente. Non a caso rimanda l’idea un po’ del deserto come tempo (e spazio) sconfinato, un tempo dove non ne vedi in modo netto i confini. Quindi c’è questo primato del tempo che occorre accogliere e accettare, proprio perché è dare tempo a Dio affinché venga a trasformarci.  Non è un caso che il tempo della Quaresima fosse il tempo che veniva dedicato a chi doveva diventare cristiano: era il cosiddetto tempo prossimo al battesimo per i neofiti, cioè i catecumeni, coloro che dovevano essere battezzati e – nello stesso tempo – era anche il tempo dei penitenti, il tempo prossimo più vicino alla Pasqua per coloro che erano scomunicati, cioè coloro che dovevano fare un percorso di ravvedimento per aver commesso dei peccati molto gravi. Questi penitenti – il giovedì Santo – venivano riaccolti nella chiesa attraverso il vescovo per poter celebrare la Pasqua.

In sostanza la Quaresima era il tempo più prossimo alla Pasqua per coloro che volevano diventare cristiani (i catecumeni) e per coloro che dovevano tornare ad essere cristiani (i penitenti). Questo ci dice che il tempo della quaresima non è il tempo dei bravi cristiani che hanno il coraggio e la forza di mortificarsi, ma è il tempo proprio di chi deve tornare a essere cristiano o comunque deve diventare cristiano. È il tempo del discepolato, del rinnovamento, per tornare ad essere figli.  Anche le rinunce che il tempo di Quaresima domanda e che leggiamo soprattutto nella liturgia del mercoledì delle ceneri, quella del digiuno dal cibo, l’elemosina – cioè la  rinuncia al possesso – e la preghiera come rinuncia a pensarci solo come se stessi e non in relazione a Dio, non sono azioni ascetiche, ma sono tre forme per rieducare il nostro desiderio.  È l’invito a provare la fame per poter gustare meglio il pasto Pasquale, a provare la fragilità e la rinuncia di cose per imparare a gustare i beni e la condivisione, a provare nella preghiera il vuoto, la rinuncia a sé, per imparare a gustare di più la propria dipendenza da Dio. Quindi fondamentalmente la Quaresima è un percorso dove si reimpara il proprio essere “dipendenti da”: dipendenti da Dio nella preghiera (nella preghiera io riconosco che non basto a me stesso ma che ho bisogno di qualcun altro), dipendenza dai beni (imparo che non sono tutti miei ma mi sono sempre donati quindi vanno condivisi), dipendenza anche dal cibo cioè dalla vita (la vita – nella figura del cibo – non proviene solo ed esclusivamente da me, ma è sempre vita ricevuta). Pertanto, il tempo serve per reimparare il desiderio tant’è che – appunto, se ci pensiamo – la forma più alta di comunione con Dio non è il digiuno. A volte pensiamo che il digiuno sia un modo per esprimere la propria dedizione, il proprio legame con Dio. Al contrario, la forma più alta di comunione con il Signore è proprio il pasto: il pasto Pasquale, il pasto domenicale, per cui il digiuno è proprio un allenamento, è una rieducazione del desiderio proprio per vivere poi una pienezza di comunione maggiore nel pasto eucaristico, nel pasto Pasquale. In questo siamo accompagnati dalla liturgia.  La liturgia ci accompagna in questo tempo (siamo nell’anno B) sia con le liturgie feriali che con le liturgie domenicali. Le une e le altre hanno un percorso già definito, dove soprattutto si mette in stretta relazione la prima lettura e il Vangelo. In particolare, ci accompagnano nella liturgia feriale il racconto dell’Esodo e nelle liturgie domenicali – soprattutto dell’anno B – nella prima lettura la memoria delle varie alleanze stipulate da Dio: alleanza con Noè, alleanza con Abramo, alleanza con Mosè e i 10 comandamenti, alleanza con Ezechiele, alleanza col nuovo spirito cantato dal profeta Gioele. Una alleanza che va rinnovata. Nei Vangeli, invece, ci accompagnano soprattutto i Vangeli di Giovanni (o meglio siamo nell’anno di Marco ma le prime due domeniche in tutti i tre anni della Quaresima sempre dedicate al tema delle tentazioni della prima domenica e al tema della trasfigurazione la seconda domenica). Le altre tre domeniche, che invece variano ogni anno, sono appunto prese dal Vangelo di Giovanni, dove abbiamo la purificazione del tempio (III), il dialogo con Nicodemo o meglio il tema del di Gesù innalzato sulla croce come il serpente innalzato nel deserto (IV), l’immagine del seme caduto in terra che muore porta frutto (V).  Quindi, qual è lo scopo  delle letture e delle liturgie domenicali del tempo di Quaresima? Quello di riformare il discepolo. Il discepolo si ristruttura o si ripensa nel suo discepolato dietro a Gesù attraverso la parola di Dio. Sicché siamo chiamati a seguire Gesù nelle sue tentazioni, noi tentati come Gesù tentato, noi trasformati/trasfigurati come Gesù trasfigurato e poi noi che dobbiamo purificare la nostra immagine di Dio e noi che siamo chiamati a ricomprendere i misteri della salvezza di Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo figlio, dice Gesù a Nicodemo.  Infine, seguendo Gesù, siamo chiamati a prendere in considerazione anche il dono totale di noi stessi come seme caduto in terra. Quindi è un percorso di riscoperta del nostro essere discepoli dietro al Signore e da ultimo ricordiamo anche che la Quaresima non si comprende se non alla luce della Pasqua e del tempo di Pasqua.  Come afferma il liturgista Andrea Grillo, non sono solo 40 giorni, ma sono 40+3+50.  40 giorni di Quaresima, 3 giorni del triduo Pasquale che esplodono nei 50 giorni del tempo Pasquale; quindi, è un tempo che ci inizia alla Pasqua. Il tempo di Quaresima finisce col Giovedì Santo; seguono tre giorni di Pasqua (perché il triduo sono tre giorni di Pasqua riletti sotto tre prospettive diverse) che esplode nella domenica di Pasqua e che si perpetua – come un’eco – per 50 giorni. Fino a Pentecoste viviamo 50 giorni di vita Pasquale dove l’energia del risorto riforma la comunità.