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La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica

Dal messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace

1 gennaio 2020

1. La pace, cammino di speranza di fronte agli ostacoli e alle prove. La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità. Sperare nella pace è un atteggiamento umano che contiene una tensione esistenziale, per cui anche un presente talvolta faticoso «può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino». In questo modo, la speranza è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili. La nostra comunità umana porta, nella memoria e nella carne, i segni delle guerre e dei conflitti che si sono succeduti e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli.

Risulta paradossale, come ho avuto modo di notare durante il recente viaggio in Giappone, che «il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo. La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani». Sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio di violenza, in un circolo vizioso che non potrà mai condurre a una relazione di pace. In questo senso, anche la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria. Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca.

2. La pace, cammino di ascolto basato sulla memoria, sulla solidarietà e sulla fraternità. Gli Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, sono tra quelli che oggi mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione: «Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e fraterno». La memoria è l’orizzonte della speranza: molte volte nel buio delle guerre e dei conflitti, il ricordo anche di un piccolo gesto di solidarietà ricevuta può ispirare scelte coraggiose e persino eroiche, può rimettere in moto nuove energie e riaccendere nuova speranza nei singoli e nelle comunità.

Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni. Nell’ascolto reciproco possono crescere anche la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto di un fratello.

3. La pace, cammino di riconciliazione nella comunione fraterna. Si tratta di abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé. Solo scegliendo la via del rispetto si potrà rompere la spirale della vendetta e intraprendere il cammino della speranza. Questo cammino di riconciliazione ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle, diventando donne e uomini di pace.

4. La pace, cammino di conversione ecologica. Di fronte alle conseguenze della nostra ostilità verso gli altri, del mancato rispetto della casa comune e dello sfruttamento abusivo delle risorse naturali – viste come strumenti utili unicamente per il profitto di oggi, senza rispetto per le comunità locali, per il bene comune e per la natura – abbiamo bisogno di una conversione ecologica. Il recente Sinodo sull’Amazzonia ci spinge a rivolgere, in modo rinnovato, l’appello per una relazione pacifica tra le comunità e la terra, tra il presente e la memoria, tra le esperienze e le speranze. Questo cammino di riconciliazione è anche contemplazione del mondo che ci è stato donato da Dio affinché ne facessimo la nostra casa comune. Infatti, le risorse naturali ci sono affidate per essere “coltivate e custodite” (cfr Gen 2,15) anche per le generazioni future, con la partecipazione responsabile e operosa di ognuno, che ci richiama alla gioiosa sobrietà della condivisione.

5. Si ottiene tanto quanto si spera. Il cammino della riconciliazione richiede pazienza e fiducia. Non si ottiene la pace se non la si spera. Si tratta prima di tutto di credere nella possibilità della pace, di credere che l’altro ha il nostro stesso bisogno di pace. La paura è spesso fonte di conflitto. È importante andare oltre i nostri timori umani. La cultura dell’incontro tra fratelli e sorelle rompe con la cultura della minaccia.

Che il Dio della pace ci benedica e venga in nostro aiuto.

Che Maria, Madre del Principe della pace e Madre di tutti i popoli della terra, ci accompagni e ci sostenga nel cammino di riconciliazione.

E che ogni persona, venendo in questo mondo, possa conoscere un’esistenza di pace.

Pregare in famiglia

E’ disponibile un piccolo sussidio per pregare in famiglia nelle quattro domeniche di avvento. Si tratta di una traccia molto semplice per coinvolgetre tutti i membri della famiglia. Ci si può ritagliare un piccolo momento durante la giornata della domenica o prima di un pasto.

Per scaricare il sussidio, cliccare qui

Catechesi famigliare. Si parte!

Sono ancora disponibili dei posti per il percorso di catechesi famigliare con i bambini 3-6 anni.

Potete leggere la presentazione della proposta cliccando qui.

Le domeniche programmate per gli incontri sono:

DOMENICA 20 OTTOBRE 2019

DOMENICA 17 NOVEMBRE 2019

DOMENICA 15 DICEMBRE 2019

Tutti gli incontri si terranno dalle ore 9.45 alle ore 10.50 presso la Canonica.

Per informazioni potete contattare:

La casa della comunità

Inaugurata la canonica di San Cesario

La canonica, già prima ancora che venisse ristrutturata si è trasformata da «casa del parroco» a «casa della comunità». Le sue porte aperte, la celebrazione della eucarestia nella cappella sottostante, hanno segnalato questa sua vocazione ad essere luogo della accoglienza.

La scelta di ristrutturarla si colloca in questo disegno. Accogliere significa offrire uno spazio bello, pur nella sua sobrietà, che invita ad entrare e ad abitarlo.

Di un luogo spesso diciamo che è «grazioso». La graziosità di un ambiente richiama la parola gratitudine, come anche la gradevolezza, e soprattutto la gratuità nel senso della apertura a tutti senza distinzioni tra chi ne ha diritto e chi meno.

La canonica è anche patrimonio che rende più bella San Cesario e il contesto della Basilica.

La canonica vuole essere una casa per tutti.

Una casa la si costruisce. Raccoglie in sé i sogni che coltiviamo, il futuro che immaginiamo, le persone che desideriamo che la abitino.

La casa – talvolta – la si riceve in dono. E’ una eredità. Anche questa canonica è un dono, che ci precede, raccoglie tante storie e domanda che non diventi proprietà personale, ma venga a sua volta donata.

La casa – soprattutto – nasce per il concorso di tanti: abbiamo voluto invitare tutti coloro che hanno contribuito alla sua ristrutturazione: dai sindaci, quello in carica e quello della amministrazione precedente, alle ditte che hanno lavorato sulla struttura, al rappresentante della regione e gli ingegneri coinvolti. La banca che ha permesso l’accensione del mutuo. L’ufficio beni ecclesiastici della Diocesi che rappresenta l’intervento della CEI nel progetto. don Fabrizio che ha accompagnato la comunità di San Cesario a intraprendere questo viaggio.

E poi c’è la comunità, fatta da noi, da tante persone che collaborano, ognuno a suo modo, a renderla viva.

Oggi ci diciamo «grazie» per aver reso possibile ricevere nuovamente in dono questa casa.

Questo concorso di persone, di competenze e di interventi, ci richiama la rete di relazioni che la canonica ha favorito e che desidera continuare a tessere.

Non è finita, perché domanda comunque che sia «vissuta» e curata da noi nei giorni avvenire. L’impegno per renderla ogni giorno accogliente è già segno di vangelo. Perché in definitiva ciò che rende queste pietre vive, come quelle della basilica, è la presenza «viva e vitale» delle persone, secondo uno stile di apertura e di generosità che renda questi spazi sempre più umani, e in fondo, sempre più evangelici.

“Salviamo l’Europa, il sovranismo porta alla guerra”

Intervista a papa Francesco, a cura di Domenico Agasso jr

– “La Stampa” del 9 agosto 2019

Il Papa apre la porta puntuale alle 10,30, con il suo sorriso gentile. Entra in una delle stanze che usa per ricevere la gente, arredata con l’essenziale, senza distrazioni o lussi, solo un crocifisso appeso alla parete. Per Papa Francesco non è un giorno qualunque: è il 6 agosto, 41° anniversario della morte di san Paolo VI, pontefice a cui è particolarmente affezionato: «In questa giornata cerco sempre un momento per scendere nelle Grotte sotto la Basilica – rivelerà – e sostare, da solo, in preghiera e silenzio davanti alla sua tomba. Mi fa bene al cuore». I convenevoli durano poco, in un attimo siamo nel pieno della conversazione.

Santità, Lei ha auspicato che «l’Europa torni a essere il sogno dei Padri Fondatori». Che cosa si aspetta? «L’Europa non può e non deve sciogliersi. È un’unità storica e culturale oltre che geografica. Il sogno dei Padri Fondatori ha avuto consistenza perché è stata un’attuazione di questa unità. Ora non si deve perdere questo patrimonio».

Quali sono le sfide principali? «Una su tutte: il dialogo. Fra le parti, fra gli uomini. Il meccanismo mentale deve essere “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, conoscere. Invece a volte si vedono solo monologhi di compromesso».

Che cosa serve per il dialogo? «Bisogna partire dalla propria identità».

Ecco, le identità: quanto contano? Se si esagera con la difesa delle identità non si rischia l’isolamento? Come si risponde alle identità che generano estremismi? «Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza – culturale, nazionale, storica – e ogni paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri».

Quali i pericoli dai sovranismi? «Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre».

E i populismi? «Stesso discorso. All’inizio faticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, “ismi”, non fa mai bene».

Qual è la via da percorrere sul tema migranti? «Innanzitutto, mai tralasciare il diritto più importante di tutti: quello alla vita. Gli immigrati arrivano soprattutto per fuggire dalla guerra o dalla fame, dal Medio Oriente e dall’Africa. Sulla guerra, dobbiamo impegnarci e lottare per la pace. La fame riguarda principalmente l’Africa. Il continente africano è vittima di una maledizione crudele: nell’immaginario collettivo sembra che vada sfruttato. Invece una parte della soluzione è investire lì per aiutare a risolvere i loro problemi e fermare così i flussi migratori».

Ma dal momento che arrivano da noi come bisogna comportarsi? «Vanno seguiti dei criteri. Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte vanno aperte, non chiuse. Secondo: accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. Allo stesso tempo, i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo. Chi amministra è chiamato a ragionare su quanti migranti si possono accogliere».

E se il numero è superiore alle possibilità di accoglienza? «La situazione può essere risolta attraverso il dialogo con gli altri Paesi. Ci sono Stati che hanno bisogno di gente, penso all’agricoltura. Ho visto che recentemente di fronte a un’emergenza qualcosa del genere è successo: questo mi dà speranza. E poi, sa che cosa servirebbe anche? Creatività. Per esempio, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economia della zona»

Erano nostri figli

di Giuseppe Savagnone (“I chiaroscuri” in www.tuttavia.eu)

Mentre il nostro Parlamento in questi giorni è impegnato nelle votazioni per trasformare in legge il cosiddetto decreto sicurezza bis (peraltro già entrato in vigore il 15 giugno), che mira a blindare le nostre acque territoriali, per impedire l’arrivo di navi delle Ong, il motopeschereccio di Sciacca “Accursio Giarratano”, nella notte tra il 23 e il 24 luglio, ha soccorso un gommone con una cinquantina di migranti in procinto di affondare e non li ha lasciati finché, dopo un’attesa di diverse ore (“perdute” per la pesca), una motovedetta italiana non è venuta a prenderli per portarli a Lampedusa.

«Con gli occhi di mio figlio»

«Noi soccorriamo con tutto il cuore i migranti in difficoltà, e lo facciamo anche come omaggio alla memoria di mio figlio morto», dice l’armatore del peschereccio, Gaspare Giarratano, che ha perso un figlio di 15 anni per un male incurabile.

E aggiunge: «Tutte le volte noi facciamo il nostro dovere, sbracciandoci e aiutando uomini, donne e bambini, perché è giusto così (…). Come potremmo voltarci dall’altra parte di fronte alle richieste di aiuto che provengono da esseri umani, che possono essere anche bambini, che magari ci guardano con gli occhi di mio figlio? No, noi li salviamo, e lo facciamo anche pensando al mio ragazzo, perché lui era come noi, e da lassù ci benedice».

Fa più notizia la grave questione del reggiseno

Ho letto questa notizia insieme a quella del naufragio che, poche ore dopo, ha coinvolto un barcone con a bordo trecento persone, di cui la metà sono morte affogate.

Cronaca ordinaria, ormai, che stenta a farsi strada sulle pagine dei giornali e nei notiziari, in attesa di un prossimo spettacolare braccio di ferro mediatico fra il nostro ministro degli Interni e una emula di Carola Rackete (magari concentrandosi poi per giorni sul suo reggiseno).

Eppure anche quelli erano figli di qualcuno. Non nostri, è vero, e lo dice la freddezza delle reazioni che ormai l’opinione pubblica ha di fronte a queste tragedie.

Perché se, invece, a morire è un giovane carabiniere italiano, appena al ritorno dal viaggio di nozze, riaffiora improvvisamente nell’opinione pubblica il giusto senso del dramma che ogni morte di uomo rappresenta Eppure le parole dell’armatore di Sciacca – «magari ci guardano con gli occhi di mio figlio» – riguardano sia gli stranieri morti in mare che il carabiniere barbaramente assassinato…

Al di là del “buonismo”

“Buonismo” a buon mercato? Oggi almeno un italiano su tre, a giudicare ai sondaggi, ne è convinto e contrappone a questi sentimentalismi la lucida analisi della ragione, tante volte esposta dal ministro Salvini: soccorrere i migranti è un danno per la nostra sicurezza e un favore fatto alle mafie che organizzano il traffico degli esseri umani, illudendo le loro vittime (che non sono affatto profughi, né poveri, altrimenti non avrebbero i soldi per pagare e non sarebbero per lo più giovani “palestrati”, con tanto di smartphone) con il miraggio del facile benessere che avranno in Italia.

Il solo modo di evitare che queste persone muoiano in mare, o riescano a sbarcare per venire a minacciarci (è eloquente l’immediato tentativo di collegare l’uccisione del carabiniere alla presenza degli immigrati), è di spegnere sul nascere questa illusione, chiudendo i nostri porti.

Un dato di fatto

Per professione, oltre che come essere umano, ho sempre apprezzato la ragione (insegnavo filosofia). Perciò sono contento che il confronto non si svolga a livello di “buoni” sentimenti – naturalmente eliminando anche l’influsso di quelli “cattivi” di paura e di odio, che invece spesso vengono esibiti senza vergogna (a differenza degli altri) in questi dibattiti. Ragioniamo, dunque.

E qui, però, la logica del discorso che sentiamo ripetere da circa un anno e mezzo – solo in questo, forse, il “governo del cambiamento” è stato sempre unito e coerente – mi sembra abbia contro sé almeno un dato di fatto, che non può essere contestato: dopo un anno e mezzo di proclami, di porti chiusi, di emarginazione delle Ong, di decreti legge uno più severo dell’altro, queste persone continuano a partire.

Molti sbarcano in Italia – proprio nei giorni dello spettacolare duello tra i due “capitani” sulla sorte dei 42 migranti a bordo della “Sea-Watch”, ne sono arrivati a Lampedusa centinaia, anche dopo i limiti posti alle navi delle Ong (vedi dichiarazioni del sindaco) –, molti non ce la fanno e annegano, molto più di prima, perché a causa di quei limiti e di tutte le difficoltà poste dal governo alle altre navi (la “Diciotti” era della marina italiana! Come lo è, adesso, la motovedetta “Gregoretti”) ora i soccorsi sono molto più problematici.

Anche noi volevamo essere felici

A quanto pare, l’enorme apparato di difesa dei nostri confini dalla «invasione» (così viene definita da molti) non ha potuto bloccare un movimento che ha radici evidentemente molto più profonde di quelle attribuibili a un complotto criminale. Come le misure di Trump non hanno scoraggiato i migranti che dal Messico cecano disperatamente di passare negli Stati Uniti.

«Non è vero che sono profughi, sono “migranti economici”!», ho sentito spesso gridare con indignazione. «Tanto che hanno i soldi per la traversata». Anche i milioni di italiani che in passato sono emigrati negli Stati Uniti, in Argentina, in Belgio, non scappavano da guerre e avevano i soldi per il biglietto della nave.

Non erano miserabili, erano poveri. Il miserabile è uno a cui manca il necessario; perciò neppure è in grado di muoversi. Il povero è uno riesce solo a sopravvivere, ma non ha il superfluo che permette di vivere bene, di essere felice. Perché, per essere felici, «niente è più necessario del superfluo» (Oscar Wilde).

Non so cosa dicano loro le mafie, ma è sicuro che le persone che sfidano, tra violenze inaudite, i viaggi allucinanti nel deserto, gli spaventosi campi di detenzione della Libia, le traversate in condizioni estreme di disagio e di pericolo, non lo fanno solo per cercarsi palestre più attrezzate. Lo fanno – e sanno benissimo a cosa vanno incontro (non hanno gli smartphone?) – perché vogliono essere felici.

Come i nostri nonni. E, se è così, non sarà certo Salvini a fermarli.

I migranti italiani erano tutte brave persone?

Quanto all’obiezione, così spesso sollevata, che i nostri emigrati erano brave persone che volevano solo trovare lavoro, mentre questi sono parassiti e delinquenti, basta aver visto “Il Padrino” per apprendere che le grandi “famiglie” della mafia degli Stati Uniti non portano per caso nomi italiani – Genovese, Bonanno… –, ma perché erano di italiani emigrati.

Reciprocamente, basterebbe conoscerne meglio qualcuno per scoprire che gli immigrati non sono, nella stragrande maggioranza, fannulloni e criminali: è stata la politica dei governi precedenti che, con una finta accoglienza senza misure di integrazione, li ha condannati all’inazione e ha impedito loro di dare, nella maggior parte dei casi, il contributo delle loro capacità e delle loro competenze.

E il primo “Decreto sicurezza”, distruggendo i pochi appigli esistenti per favorire l’integrazione, ha esasperato questa emarginazione, rendendo reale un pericolo di criminalizzazione che prima era abbastanza remoto.

Come i nostri ragazzi

Non vengono per aggredirci. Chiedono di essere accolti perché la nostra società può dare loro la possibilità di essere felici. Come i nostri figli che, ormai sempre più spesso, vanno a cercare opportunità di una vita migliore in altri Paesi, e che sono dunque anche loro “migranti”. E se alla frontiera di questi Paesi i nostri ragazzi fossero bloccati, perché sono italiani (e quindi fannulloni e donnaioli), non ci indigneremmo?

E se i governi stranieri per scoraggiare l’emigrazione in atto dei nostri ragazzi li costringessero a rischiare la vita per arrivare, e poi li lasciassero morire senza soccorso, puntando sul fatto che, con un po’ di italiani morti, gli altri si scoraggeranno e la smetteranno di cercare di “rubare” i posti di lavoro ai loro cittadini?

Non grideremmo, con tutta la nostra rabbia e la nostra disperazione – specie se uno di quei ragazzi fosse nostro figlio – che un governo e un popolo che fanno questo sono al di sotto della più elementare umanità?

Erano anche nostri figli

Certo, quelli che sono morti al largo della Libia l’altra notte, non sono nostri figli. E le grida di dolore dei loro genitori non arrivano fino a noi.

Non abbiamo così neppure bisogno di giustificarci spiegando che avremmo voluto «aiutiarli a casa loro». (Una clamorosa bugia, perché il solo aiuto che finora i nostri governi – compreso quello attuale – hanno dato è consistito nel vendere armi per alimentare guerre civili e guerriglie).

Per questo possiamo sbadigliare davanti alla Tv, quando ci segnala la notizia dell’ultimo naufragio. Mentre ancora ci indigniamo se a morire è un povero ragazzo italiano di 35 anni.

Eppure forse, al di là della cittadinanza giuridica e dell’appartenenza etnica, queste morti ci riguardano tutte. Perché i ragazzi che ora non vivono più – mi tornano alla mente le parole di Gaspare Giarratano – avevano tutti gli stessi occhi dei nostri figli…