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Difensori del presepe

di A. Grillo

Ci sono, nelle tradizioni, logiche profonde e complesse, che vanno rispettate proprio nella loro complessità. Anche la tradizione cristiana, e in particolare quella cattolico-romana, non sfugge a queste logiche. Quasi 70 anni fa un parroco diede fuoco a Babbo Natale, sul sagrato della Chiesa, per “difendere” Gesù bambino dai “culti pagani”. Questo episodio diede lo spunto, a C. Lévi-Strauss per scrivere un bell’opuscolo, dal titolo “Babbo Natale giustiziato” nel quale metteva in luce la profonda continuità tra culto pagano e culto cristiano, sulla base della antica festa del Sol invictus, dove i temi della luce, delle piante sempreverdi e dei “vecchi/morti” e dei “bambini/neonati” si intrecciano strutturalmente.

Ora, in questo contesto, quando la polemica diventa vuota e formale, possiamo trovare il paradosso per cui politici senza vero retroterra di fede, la cui sensibilità verso lo straniero è proverbiale, diventino i “difensori del presepe” (e del Crocifisso), pretendendo di far passare pastori e cristiani come  “nemici del popolo”.

La questione decisiva, in tutto questo, è ciò che da tempo chiamo “effetto presepe”. Vorrei provare a spiegarlo brevemente. In tutte le grandi tradizioni, infatti, i passaggi decisivi – nel nostro caso cattolico, il Natale e la Pasqua – diventano “luoghi di riconoscimento”, non solo religioso, ma culturale e sociale. “Fare il presepe” a Natale, e “visitare i sepolcri” a Pasqua diventano luoghi di identità. Ma, proprio in questo passaggio, le tradizioni si mettono a rischio, perché concentrano in un punto tutti i “messaggi” e proprio per questo “sovraccarico” rischiano di perderne il senso. Il presepe e il Crocifisso diventano, così, meri simboli di identità, in cui la comunità si identifica “contro qualcuno”, contraddicendo in modo vergognoso il significato del simbolo stesso.

Il presepe, in modo esemplare, costituisce un caso tipico di questa “tentazione”. Presepe dice, in latino, “mangiatoia” e costituisce la “versione di Luca” del mostrarsi del Salvatore. Che si rivela ai pastori irregolari e non ai buoni credenti regolari del tempo. La tensione, in quel testo di Luca, è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscerlo solo nella irregolarità dei pastori. Nella versione di Matteo, invece, la dose è ancora rincarata: la tensione è tra la stella e i magi che la seguono, nella loro condizione di stranieri, e la ostilità viscerale dei residenti. Il “presepe”, mescolando tutti questi messaggi, rischia di non aumentare, ma di diminuire la forza della tradizione, riducendola a un “soprammobile” borghese. Il presepe significa che ultimi, stranieri e irregolari riconoscono Gesù, mentre Governatori, Ministri e residenti regolari cercano di ucciderlo. Esattamente come, a Pasqua, sanno riconoscere Gesù una donna dai molti mariti, un disabile grave come il cieco nato e un cadavere come Lazzaro, mentre i potenti lo uccidono senza pietà. Queste sono le categorie privilegiate dalla Chiesa!

Ciò che il mondo cattolico deve chiedere, con parole pacate, è un passo avanti nell’assumere il significato autentico del Presepe e del Crocifisso, chiedendo ai politici di fare un “passo indietro” su temi che non si possono fare entrare nella bieca speculazione politica. Ecco come lo aveva detto, alcuni anni fa, il Vescovo di Padova: «Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo. Il Natale, in questo senso, è un esempio straordinario, un’occasione di incontro con i musulmani, che riconoscono in Gesù un profeta e venerano Maria». Solo con un piccolo passo indietro si fa un grande passo avanti. Nella pura tradizione cristiana. E non è un caso che i politici dell’odio e della indifferenza oppongano a questo una resistenza viscerale.

Vogliono cacciare gli stranieri e i crocifissi dall’Italia e avere in ogni ufficio crocifissi e presepi come soprammobili? Questo è semplicemente disgustoso. Delle due l’una: o riempiamo di simboli natalizi e pasquali una terra che sappia dimostrarsi accogliente e non indifferente. O scegliamo di cacciare chi è senza casa e tutti i crocifissi della terra, ma, almeno per un minimo di pudore, cerchiamo di arrossire davanti ai simboli di ciò che non accettiamo e vogliamo soltanto combattere. E’ ovvio che, per chi gioca solo su odio e disprezzo, anche il presepe e il crocifisso possono diventare non strumenti simbolici di comunione, ma strumenti diabolici di disprezzo.  A questo uso distorto e  perverso dei grandi simboli cristiani ci opporremo sempre con assoluta determinazione.

(in www.cittadellaeditrice.com/munera)

3 dicembre 2018

“Celebrare assieme” – Una serata di formazione liturgica a San Cesario

La comunità cristiana di San Cesario celebra bene, con cura. Le nostre messe esprimono il bello della fede e realmente costruiscono la nostra comunità. Proprio perché abbiamo questa sensibilità, questa riflessione intende approfondire «perché celebrare e celebrare in un certo modo, fa crescere la fede»; e di conseguenza: Come un certo modo di celebrare – al contrario – impoverisce la fede.
Partiamo da un breve racconto tratto dal «Piccolo principe»

Buon giorno”,
disse il piccolo principe.
“Buon giorno”, disse il mercante.
Era un mercante di pillole perfezionate
che calmavano la sete.
Se ne inghiottiva una alla settimana
e non si sentiva più il bisogno di bere.
“Perché’ vendi questa roba?” disse il piccolo principe.
“E’ una grossa economia di tempo”, disse il mercante.
“Gli esperti hanno fatto dei calcoli.
Si risparmiano cinquantatré minuti la settimana”.
“E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?”
“Se ne fa quel che si vuole…”
“Io”, disse il piccolo principe,
“se avessi cinquantatré’ minuti da spendere,
camminerei adagio adagio verso una fontana…”

Con la domenica e la messa possiamo correre il rischio di vivere una esperienza simile a quella descritta nel brano de «Il piccolo principe». Alla domenica e alla celebrazione rischiamo di chiedere il “tutto e subito”, quasi che si potesse afferrare in un attimo, in quarantacinque minuti, quello che la settimana o la vita ordinaria non ci permettono.
Il piccolo principe, invece, propone di camminare adagio verso la fontana. Camminare, cioè, muoversi, attivare il corpo e il desiderio. Adagio, per gustare il cammino e non divorare il tempo. Verso la fontana, simbolo delle sorgenti sacre della vita. La domenica è il tempo donato da Dio per caminare adagio verso la sorgente eucaristica della vita. Perché l’eucarestia è per il cristiano. la sorgente da cui sgorga l’acqua viva della Parola di Dio che si fa di nuovo carne e sangue.

Il titolo un po’ provocatorio («L’importante è partecipare»), intende mettere al centro la questione fondamentale:
nella celebrazione siamo tutti coinvolti e tutti partecipi.
Si tratta di una delle consapevolezze più decisive emerse dal Concilio Vaticano II. Il popolo di Dio, radunato, partecipa alla celebrazione. Non semplicemente assiste, ma è «concelebrante», attraverso una serie di azioni che, ora il presbitero, ora il lettore, ora il salmista, ecc…coinvolgono l’intera comunità.
Chi interviene si fa «voce», si fa «gesto» per e assieme alla assemblea, ma mai «al posto di…», cioè esonerandoci. Liturgia significa «azione del popolo e per il popolo», ovvero quello che noi facciamo davanti a Dio perché Egli sia con noi e si riveli a noi.

Questa partecipazione avviene prima di tutto lasciandosi immergere dalla celebrazione. Cosa intendiamo dire? Se pensiamo a certe esperienze della nostra vita ordinaria, ci rendiamo conto che si comprendono esclusivamente vivendole, prima ancora di capirne il senso a livello intellettuale. I termine corretto è pertanto immersione. Essere circondati, essere dentro. La liturgia la si comprende vivendola. L’esperienza di fede, del resto, non è tanto stare davanti a Dio, o Dio in me, ma stare in Dio. Ci lasciamo avvolgere dalla esperienza liturgica. Il termine più giusto allora non è capire, bensì com-prendere. Entrare con tutto noi stessi in una esperienza fatta di parola, gesti, tatto, odorato, suoni, voce, canto, movimento.
Infatti ci sono esperienze e consapevolezze che non si possono capire, fare nostre, se non vivendole. Solo grazie ad azioni o gesti che instillano in noi una nuova consapevolezza, solo grazie ad un linguaggio diverso, possiamo vivere l’esperienza di fede. Sono soprattutto i linguaggi simbolici, come il linguaggio poetico, dell’arte (musica), del muoversi.

Per questo motivo occorre entrare nella liturgia con tutto il proprio corpo, non solo con la testa. Siamo spesso intimiditi nell’usare il corpo, nel dare legittimità, spazio, libertà e valore al corpo e ai suoi movimenti, alle sue emozioni, alle sue espressioni. Invece la liturgia vive ed è decisiva grazie a tanti linguaggi, dove quello verbale e quello concettuale è uno solo di questi e, per certi versi, nemmeno il più decisivo.
Si vive l’esperienza di fede attraverso i cinque sensi: il tatto, il gusto, l’udito e la voce, l’olfatto, la vista. Noi entriamo nella liturgia con questi sensi. Anzi, il primo è sempre il tatto. Eppure ci concentriamo sul cervello. Per questo è importante un certo modo di cantare, di muoversi, di apparecchiare la mensa e la Parola, le luci, i movimenti, o l’accostarsi al pane e al vino…
Sono esperienze spirituali.
Infatti ciò che è esteriore incide sull’interiore. Non è vero che ciò che conta è l’interiorità a prescindere dal corpo e dall’esteriorità.
Questo è un esito della mentalità illuminista che abbiamo portato dentro la chiesa e che ancora ci limita tantissimo. Tuttavia, se ci pensate, nella realtà normale, quella che viviamo tutti i giorni, non è così. Siamo consapevoli che l’esterno incide sull’interno. Corpo e interiorità sono una cosa sola. Molte cose le impariamo dal corpo e col corpo, prima ancora che diventino concetto, riflessione, convinzione pensata.
«Eppure conta il cuore» – diciamo spesso. NO! Conta il cuore che sente, che si interroga perché scaldato da un canto, raggiunto da una parola attraverso una voce, toccato da un movimento, da un contatto, da un incontro di sguardi.
Oppure dal silenzio.
Un ultimo, ma non meno importante, aspetto è la comunità. Essa è fondamentale.
La liturgia è azione del popolo quindi di un «noi». Non è esperienza individuale. Personale, sì, cioè che vivo in quanto persona credente e figlio di Dio, ma dentro una comunità. Non è esperienza di isolamento (mi ritaglio uno spazio per me). Quello che raggiunge me, mi raggiunge attraverso e grazie ad un NOI!
Non esiste esperienza di fede senza un noi.
Lo dice bene sempre il Concilio Vaticano II nel documento sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium) al n° 26:

Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento dell’unità», cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.

Avvento: il tempo dell’invocazione e dell’attesa

Entriamo nel tempo dell’avvento, il tempo della memoria, dell’invocazione e dell’attesa della venuta del Signore. Per molti cristiani l’Avvento è stato ridotto ad una semplice preparazione al Natale, quasi che si attendesse ancora la venuta di Gesù nella carne della nostra umanità e nella povertà di Betlemme. Si tratta di “un’ingenua regressione devota che depaupera la speranza cristiana”, riducendo così l’avvento ad un tempo dolciastro e svuotato della dimensione di attesa, tensione, vigilanza e responsabilità. Nell’avvento certamente ricordiamo che il Signore è venuto duemila anni fa’, ma l’avvento ci spinge oltre: non solo il Signore è venuto, ma soprattutto il Signore verrà alla fine dei tempi (noi stiamo camminando verso una buona meta, non verso il nulla) e il Signore viene anche oggi nella nostra storia invitandoci a renderla storia di salvezza per ogni uomo! Il tempo dell’Avvento vuole risvegliare in noi con forza queste due attese: l’attesa della venuta del Signore alla fine dei tempi e l’attesa della venuta del Regno di Dio nella nostra storia presente. L’Avvento ci spinge innanzitutto a sollevare lo sguardo verso il futuro, verso la fine dei tempi. Tutta la creazione geme e soffre come nelle doglie del parto aspettando la sua trasfigurazione e la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss.): il Signore verrà alla fine dei tempi e instaurerà il suo regno di giustizia e di pace. Sostenuta da questa fiducia, la chiesa nel tempo di Avvento, ripete con più forza e assiduità l’antica invocazione dei cristiani: Marana thà! Vieni Signore! L’Avvento ci ricorda che noi cristiani viviamo nell’attesa della venuta di Cristo alla fine dei tempi, l’Avvento però ci ricorda anche che in attesa del giorno del Signore noi non possiamo chiuderci nella nostra passività. Proprio l’attesa del Signore alla fine dei tempi ci obbliga a vivere da svegli e non da addormentati, ci obbliga a vivere nella vigilanza che è amore concreto verso gli altri soprattutto gli ultimo e i poveri. Proclamare nelle liturgie di Avvento: “Maranatha! Vieni Signore”, significa per noi cristiani impegnarci attivamente e concretamente perché il regno di Dio venga ora nella nostra storia. In questi giorni di avvento in cui le ore di luce si accorciano e la notte sembra vincere, noi cristiani non ci arrendiamo e continuiamo a cercare la luce vera guidati nel nostro cammino dalla croce dell’amore che le tenebre non hanno potuto e non potranno contenere.

Alcuni segni per le nostre liturgie d’Avvento
– L’avvento comincia nel momento in cui attorno a noi la natura si addormenta nel sonno dell’inverno e le giornate vedono diminuire la luce e crescere la notte. In questi giorni in cui le tenebre sembrano vincere sulla luce, per ricordarci che noi stiamo camminando verso la luce vera che le tenebre non possono vincere, iniziamo ogni celebrazione con il rito del lucernario: la chiesa è buia e durante l’atto penitenziale vengono accese progressivamente le luci. Accendiamo anche le candele che rappresentano le quattro settimane di avvento e, prima dell’ascolto della Parola di Dio, la candela sotto l’ambone: la Parola sia la luce che guida la nostra attesa.
– Il tempo dell’Avvento è il tempo in cui la chiesa invoca: “Maranatha! Vieni Signore!”, questa invocazione caratterizza l’atto penitenziale, nella certezza che il Signore non viene per condannare ma per salvare.
– La croce di Lampedusa, che abbiamo scelto di mettere al centro della liturgia in questo tempo di Avvento, ci richiama con forza l’attesa della venuta del Signore alla fine dei tempi e l’attesa della venuta-realizzazione del Regno di Dio nella nostra storia presente. La croce di Lampedusa ci ricorda che in attesa del giorno del Signore noi non possiamo chiuderci nella nostra passività. Proprio l’attesa del Signore alla fine dei tempi ci obbliga a vivere da svegli e non da addormentati, ci obbliga a vivere nella vigilanza che è amore concreto e non nella globalizzazione dell’indifferenza.

Il tempo di Avvento

«Il tempo di Avvento ha una duplice caratteristica: è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini e, contemporaneamente, è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi».
In questo periodo, infatti, la comunità cristiana si prepara a fare memoria dell’Incarnazione del Verbo, quando Dio, nella pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, nato da donna», ma anche attende trepidante il ritorno glorioso del Cristo alla fine dei tempi. La compresenza e la complementarietà tra la tensione della Chiesa che attende con gioia il compiersi definitivo della redenzione e la memoria grata del «mirabile scambio» tra divinità e umanità è ben testimoniata dalle parole della liturgia. Ad esempio:

«Ascolta, o Padre, le preghiere del tuo popolo
 in attesa del tuo Figlio
 che viene nell’umiltà della condizione umana:
 la nostra gioia si compia alla fine dei tempi quando egli verrà nella gloria».

Seppur accentuate alternativamente, la liturgia di tutto l’Avvento, pertanto, contempla ambedue le venute di Cristo in un profondo rapporto. «Le letture del Vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (II e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia».

Perché cambia il Padre nostro

 

di Enzo Bianchi in “la Repubblica” del 16 novembre 2018

 

Sono ormai passati quasi cinquant’anni dalla traduzione ufficiale in italiano del Messale romano, riformato da Paolo VI in obbedienza al concilio Vaticano II: un tempo molto lungo per una lingua viva come l’italiano. Occorreva dunque una nuova traduzione, una revisione dei testi liturgici e la Conferenza episcopale italiana ha approvato il lungo lavoro svolto da vescovi ed esperti a partire dal 2002.

In realtà non ci sono grandi novità: più che “nuova” potremmo definire questa edizione come “riveduta”; eppure, di fronte a questo aggiornamento si sono subito levate voci pretestuose: “Ci cambiano la messa, ci cambiano il Padre nostro, ci cambiano il Gloria…”. Infatti, per i cattolici che frequentano la messa domenicale, risulteranno evidenti solo due espressioni, il cui cambiamento si è reso necessario per facilitare una comprensione più aderente al testo del Vangelo che contengono.

Era certo bella e piena di significato l’espressione “pace in terra agli uomini di buona volontà”, che traduceva letteralmente il latino della Vulgata, ma non l’originale greco del Vangelo di Luca. A molti questa locuzione indicava che Dio ama gli uomini oltre le frontiere cristiane, ama anche quelli che, pur senza la fede, hanno la bontà nel loro cuore e cercano di realizzarla. In questo senso la usò pure papa Giovanni XXIII, indirizzando alcuni suoi scritti, a cominciare dalla Pacem in terris, non solo alle persone di chiesa ma anche, appunto, “a tutti gli uomini di buona volontà”. Tuttavia l’espressione ora adottata — “pace agli uomini amati dal Signore” — (nel greco “pace agli uomini che egli ama”) non esclude nessuno, ma afferma che Dio ama tutta l’umanità. La nuova traduzione della Bibbia pubblicata dalla Cei nel 2008 l’aveva già adottata, così come nella versione di Matteo del Padre nostro era apparsa allora l’altra espressione innovativa: “non abbandonarci alla tentazione”.

In ogni caso, questo nuovo tentativo di traduzione era necessario affinché nessuno oggi fosse indotto a pensare che Dio ci tenta al male, al peccato: sarebbe una bestemmia! Dio ci può sottoporre alla prova per saggiare e discernere il nostro cuore, ma mai alla tentazione. D’altronde già sant’Ambrogio di Milano nel IV secolo commentava così: “Non permettere che siamo condotti nella tentazione da colui che tenta più di quanto possiamo sopportare; non si dica quindi non ci indurre in tentazione”, vietando così di attribuire a Dio la responsabilità delle nostre tentazioni.Questa traduzione è una delle possibili, non la sola: tradurre a volte può sconfinare nel tradire, ma è un rischio che va assunto con consapevolezza. Infatti, la traduzione che tutti i cristiani usavano da decenni, molto fedele al testo latino, suonava “non ci indurre in tentazione” e rischiava di dare un’immagine perversa di Dio, quasi che Dio possa essere l’autore della tentazione. Dio invece non ci tenta e non può tentare nessuno al male, come afferma l’apostolo Giacomo nella sua lettera (Gc 1,13-15). Come comprendere allora questa richiesta rivolta al Padre? Non è facile tradurre un’espressione greca che forse trova ispirazione in un salmo in aramaico ritrovato a Qumran, dove il fedele prega: “Fa’ che non entri in situazioni troppo difficili per me!”. Il termine greco (peirasmos) indica “prova” oppure “tentazione”? E il verbo “non farci entrare” ( nella prova o nella tentazione), essendo in forma causativa, non significa forse “fa’ che non entriamo in tentazione”? I vescovi francesi, nella traduzione adottata alcuni anni or sono, hanno scelto di cambiare il precedente “non sottometterci alla tentazione” con ” non lasciarci entrare in tentazione”. La scelta per la nostra lingua poteva essere: “non abbandonarci nella tentazione”, oppure “non abbandonarci alla tentazione”, ma anche “non lasciarci cadere in tentazione” (come scelto dalla traduzione spagnola).

Va comunque ricordato che la comprensione della liturgia e del suo linguaggio è una sfida incessante: si tratta di veicolare un messaggio in modo fedele all’intento originale e, al contempo, comprensibile dal destinatario concreto.

Quando Dio ci sorprende.

Ogni nuovo inizio è una opportunità. L’invito che ha dato spunto al nostro anno pastorale è quello di un «cambio di sguardo». Osservare la vita, la nostra vita da una prospettiva diversa.
Quando ci poniamo da una prospettiva diversa le cose sono le stesse, ma si può cogliere di esse qualcosa di nuovo, una sfaccettatura mai considerata prima, un aspetto che getta una luce diversa anche su un singolo ambito della nostra esistenza. I nuovi inizi sono così. I cambiamenti ci costringono a ri-posizionarci, ad assumere una posizione diversa e quindi – se lo desideriamo – a guardare in modo diverso. In queste settimane, in questi ultimi mesi, sono cambiate diverse cose. Don Fabrizio ha salutato questa comunità con la quale ha camminato per dodici anni, sono giunto io, dopo un percorso di riflessione tra la comunità e il vescovo molto prezioso, ma che ha costretto a porsi in una ottica diversa. E poi la canonica in ristrutturazione. La canonica «casa della comunità». Un luogo che non solo accoglie, ma fa vivere e respirare quella idea di chiesa che abbiamo imparato a sperimentare in questi anni.
Un nuovo inizio che porta con sé tante domande, anche tanti dubbi, che costringe a ri-collocarsi e a domandarsi: «Io come sto davanti a tutto questo?». Continue reading

Iniziazione cristiana e comunità-grembo

di Enzo Biemmi – Assisi 28 aprile 2018

Da una ventina di anni la Chiesa italiana ha investito molto nel rinnovamento dell’Iniziazione Cristiana (IC). Alcune diocesi hanno fatto da apripista, con molto coraggio. Altre comunità stanno ancora alla finestra, desiderose di partire ma esitanti, in cerca di orientamenti e indicazioni di percorso sufficientemente sicure. Altre, infine, dobbiamo riconoscerlo, si limitano a ripetere stancamente quello che si è sempre fatto. Il motivo di questo lavoro ci è chiaro: la constatazione che l’IC non inizia più o inizia molto debolmente alla fede. Il lavoro di questi anni si è svolto tra momenti di entusiasmo e di scoraggiamento, convinzioni forti e dubbi che hanno fatto spesso capolino. Il tutto ha comportato un impegno notevole nella riqualificazione dei catechisti e dei parroci implicati, un dispendio di energie che qualche volta è risultato perfino superiore alle risorse disponibili. Oggi sentiamo la necessità di un rinnovamento, ma di un rinnovamento “sostenibile” per le nostre comunità reali. Che ne è di tutto questo lavoro? Possiamo dire che abbiamo raggiunto qualche punto fermo?
Da questo percorso non privo di ostacoli e tutt’altro che concluso abbiamo saputo imparare, riflettendo, condividendo, aggiustando il tiro quando è stato necessario. Pur nella pluralità delle scelte e dei percorsi siamo arrivati per il momento ad una conclusione condivisa che così riassumo: il rinnovamento dell’IC non è primariamente una sfida catechistica, ma ecclesiologica.
Vorrei motivare questa affermazione. La prima tappa è stata la rinuncia a pensare che il rinnovamento dell’IC sia prima di tutto una questione di rinnovamento delle strategie o dei modelli di catechesi. La vera sfida è mettere il vino nuovo in otri nuovi. L’otre vecchio è la comunità, o meglio la “non comunità ecclesiale”, la mancanza di un grembo comunitario generativo. Il modello catecumenale, il modello dei 4 tempi, il modello consueto rinnovato sono sterili o fecondi (la fecondità secondo Dio e secondo i suoi tempi, naturalmente) a seconda di questa condizione: che ci sia un tessuto ecclesiale generativo, che ci sia una comunità così appassionata della vita che desideri fare figli. Si genera là dove c’è un grembo e c’è un grembo là dove c’è desiderio. Al punto di arrivare a dire che se c’è una comunità desiderante, anche i modelli molto tradizionali possono essere efficaci.
Siamo dunque tornati al palo, al punto di partenza dopo venti anni di lavoro? Non esattamente. Da quello che abbiamo capito fino ad ora grazie a chi ci ha messo l’impegno e la creatività è questo: è iniziazione cristiana l’atto generativo di una comunità che tramite un bagno di vita ecclesiale propone con gioia un tirocinio, un apprendistato alla vita cristiana attraverso le tappe sacramentali, per persone che non hanno più o quasi più o non ancora un’esperienza concreta di vita cristiana, cioè di relazione con il Signore Gesù all’interno della comunità dei suoi discepoli. Un bagno di vita ecclesiale. Non più preparare ai sacramenti, ci siamo detti, ma iniziare alla vita cristiana attraverso le tappe sacramentali. E la condizione di tutto questo è evidente: che ci sia una comunità che accoglie l’amore del Signore, ha desiderio di avere dei figli, li concepisce, li partorisce, li fa crescere, li accompagna, lascia che vivano il dono di cui essi sono portatori senza volerne fare delle fotocopie. Desiderare, concepire, partorire, avere cura, lasciar partire: i verbi del generare sono i verbi dell’iniziazione cristiana. Essi chiedono una madre che desidera dei figli. Una madre, non una baby sitter.
È quanto ci siamo sentiti dire dalla relazione di Mons. Erio Castellucci in apertura del Convegno dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani. Riascoltiamo la sua conclusione: «Il passaggio fondamentale oggi mi sembra proprio questa consapevolezza “olistica”, a tutti i livelli della maternità ecclesiale. Chi genera alla fede non è, e non deve essere, solamente “la catechista”, ma tutta la comunità, tutta l’assemblea eucaristica, e specialmente l’insieme degli operatori pastorali, a partire dai presbiteri e dai diaconi, per comprendere gli animatori della liturgia, del coro e dell’oratorio, gli allenatori, le persone impegnate nella Caritas, i capi scout e gli educatori di Azione Cattolica e così via. O l’intera comunità si rende conto di essere grembo, oppure questo grembo sarà sterile. Un approccio “olistico” dunque comporta l’integrazione fra i diversi ingredienti dell’esperienza cristiana e tra i diversi soggetti della comunità».

Al via il Sinodo dei Giovani

Vescovi da tutto il mondo si sono riuniti da mercoledì 3 ottobre, fino al 28 ottobre, al Sinodo dei giovani. L’assemblea rappresenta una «opportunità provvidenziale» in questo frangente, ha detto il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, che ha confermato che partecipano al Sinodo due vescovi cinesi invitati dal Papa dopo il recente accordo con Pechino.
Quello che si è aperto è «il terzo Sinodo convocato da Papa Francesco» dopo il doppio Sinodo sulla famiglia (2014-2015), ha ricordato il porporato toscano, e «si pone nella linea delle precedenti assemblee, il cui filo conduttore è il rinnovamento della Chiesa e della società a partire proprio dalle fondamenta: la famiglia e i giovani che garantiscono le generazioni future». Il tema dei giovani «è certamente oggi una “sfida”, come del resto lo fu quello della famiglia» e «la Chiesa non ha paura di affrontare le sfide, che sono sempre difficili e insidiose» perché «è sicura che la forza spirituale e umana le viene dallo Spirito Santo, che ispira e sostiene i suoi Pastori e il suo gregge, con a capo colui che ha il ministero di confermare i fratelli».
In particolare, come ha detto il Papa, la Chiesa «vuole mettersi in ascolto della voce, della sensibilità, della fede e anche dei dubbi e delle critiche dei giovani». Spesso, ha detto da parte sua il cardinale Sergio da Rocha, relatore generale, «si sentono voci che incolpano i giovani per essersi allontanati dalla Chiesa. Ma molti di loro hanno vissuto situazioni che li portano ad affermare che è la Chiesa ad essersi allontanata dai giovani. E ce lo dicono apertamente. In molti casi non l’hanno sentita e non la sentono vicina e accogliente, specialmente nei momenti più faticosi del loro percorso di crescita umana. Dovremo così chiederci: siamo comunità significativa per i giovani oggi? In che modo essi possono essere protagonisti nella vita della Chiesa? Quali conversioni e gesti profetici sono necessari per riguadagnare la fiducia e la stima delle giovani generazioni?».
Alla 15esima assemblea generale ordinaria del Sinodo, sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, prendono parte 266 padri sinodali: 50 cardinali, sei patriarchi, un arcivescovo maggiore, 44 arcivescovi, 101 vescovi residenziali, 37 ausiliari, sei vicari apostolici e un vescovo prelato, dieci religiosi in rappresentanza dell’Unione dei Superiori generali e dieci membri tra presbiteri e religiosi non vescovi. Partecipano inoltre, senza diritto di voto, 23 esperti e 49 tra uditori e uditrici: fra di loro 36 giovani, tra 18 e 29 anni, scelti in rappresentanza dei diversi continenti e delle diverse categorie interessate (seminari, ordini religiosi, associazioni, pastorale giovanile) il cui ruolo, ha spiegato Baldisseri, è «l’ascolto degli interventi dei padri sinodali», ma «potranno intervenire e saranno presenti nei circoli minori, dove possono prendere la parola e collaborare alla stesura dei “modi”, cioè gli emendamenti, inseriti nella relazione finale».
A chi domandava se gli abusi sessuali sono un «impedimento» all’avvicinamento della Chiesa ai giovani, ricordando che nei Paesi baltici anche il Papa ha sottolineato che i giovani sono indignati dagli scandali sessuali ed economici, Baldisseri ha risposto che «i giovani sono molto più intelligenti e aperti, al bene e al male, capiranno e capiscono: certo che gli scandali che sono avvenuti nella Chiesa in questo tempo colpiscono la mente e il cuore e l’immaginario, ma credo che i giovani siano aperti a capire la fragilità umana, mantenendo salda la loro fede nel vangelo. Non credo che gli scandali siano un impedimento, anzi, è un’occasione forse per testare di più quello che è la Chiesa, santa e peccatrice, sempre bisognosa di conversione. Si tratta anche di un’occasione perché la Chiesa sia conosciuta non solo a causa di alcuni che hanno fallito o hanno dato scandalo. Il Sinodo è l’opportunità provvidenziale per poter spiegare, far capire ai giovani e agli adulti che la Chiesa non è rappresentata solo da alcuni che sbagliano. Ho incontrato giovani entusiasti intorno al loro vescovo, sacerdoti, religiosi, la figura del Santo Padre è venerata e ammirata, e questa è una buona premessa per lavorare bene in queste settimane».

Iacopo Scaramuzzi in “La Stampa” del 3 ottobre 2018

L’ORATORIO “don Luigi Albertini”

L’Oratorio nasce dalla comunità parrocchiale: è strumento e metodo per la formazione umana e cristiana delle giovani generazioni.

L’Oratorio, insieme alla famiglia, è pertanto il luogo privilegiato, anche se non l’unico, dell’educazione alla fede.

L’Oratorio è comunità che educa all’integrazione tra fede e vita, coinvolgendo responsabilità e capacità educative molteplici: sacerdoti, suore e laici, genitori ed educatori, catechisti, animatori, collaboratori. L’Oratorio assume vocazione missionaria divenendo luogo di proposta e dialogo, aprendosi alle domande ed ai bisogni dei giovani e dei ragazzi d’oggi. E’ contemporaneamente luogo di proposta e di risposta, di riflessione, d’esperienza e di crescita, ma anche comunità aperta ed impegnata nel territorio. Per far ciò, nella consapevolezza dell’utilità sociale del proprio compito, l’Oratorio cerca di dialogare con le altre realtà educative presenti sul territorio: in particolare con le famiglie, la scuola, i gruppi.

L’Oratorio è “laboratorio di evangelizzazione“, “cantiere” nel quale si progettano e si sperimentano iniziative con l’obbiettivo di annunciare, testimoniare, celebrare la vita di Cristo.

L’Oratorio, nell’educazione alla fede, tiene conto della gradualità della maturazione umana e cristiana e perciò non si limita a proporre la catechesi, ma offre una vasta gamma di attività, capaci di coinvolgere educativamente quante più persone è possibile, partendo dal diverso livello di maturazione umana e cristiana in cui ciascuno si trova. Le attività che l’Oratorio propone, per un’educazione globale della persona, vanno da quelle specificatamente formative a quelle ludiche, sportive o di altro genere. In tal modo, l’Oratorio non trascura nulla di ciò che può aiutare la persona a raggiungere in pienezza la maturità umana e cristiana.

Il nostro oratorio è in Corso Libertà 38 a San Cesario: ti aspettiamo!

Il coordinamento delle attività dell’oratorio parrocchiale è affidato al “Consiglio dell’Oratorio – ANSPI”

Il Consiglio è in carica dal 2019 ed è così costituito:

don Luca Palazzi – amministratore parrocchiale e Presidente del Consiglio dell’Oratorio

Matteo Venturelli – Vicepresidente

Marco Morini – Segretario

Davide Donatelli – Tesoriere

Altri consiglieri

Linda Gibertini

Carlotta Trenti

Giovanni Rossi

Clelia Albertini

Andrea Cavedoni

Letizia Scurani

Giulia Bonaccini.

Bilanci Oratorio

BILANCIO 2022