di Lidia Maggi, in “Riforma” del 28 novembre 2008
Fermiamoci un attimo. Prendiamoci un po’ di spazio per riflettere sul tempo. Come viviamo il
tempo?
La domanda può sembrare un po’ astratta, una questione da filosofi. Ma è davvero così? Come
raccontare le nostre storie senza fare i conti con il tempo, con la memoria del passato, col nostro
presente, con le ansie e le attese future?
Parlare del tempo è parlare di noi, delle nostre vite. E riflettere su di esso significa interrogarsi sulla
qualità della nostra esistenza. Come stiamo vivendo? Come scorrono i nostri giorni, i nostri anni?
Immediatamente ci assale un dolore. Ci sentiamo lacerati perché vorremmo vivere i nostri giorni
nella piena consapevolezza, dando priorità alle cose e alle relazioni che contano. E invece ci
ritroviamo a correre, a non avere mai abbastanza tempo per le persone che amiamo. Riflettere sul
tempo è prima di tutto un atto doloroso che scatena sensi di colpa, sentimenti di inadeguatezza. Il
primo istinto è la rimozione che si manifesta qualche volta con la cinica rassegnazione C’est la vie.
Bisogna correre, agire, produrre: essere all’altezza degli standard sociali. Non siamo felici di questo
modo di vivere, ma è la realtà. Abitiamo questo tempo, siamo figli di questa epoca. Non si può
vivere fuori dalla storia. E così il tempo che dovrebbe dischiudere le promesse si presenta come
minaccia, se non come aguzzino che ci tiene in ostaggio. Un ritmo che non ci appartiene, imposto
da una società che valuta le persone per le loro performance, per la capacità di saper sfruttare al
meglio il proprio tempo. Il tempo è denaro. E dunque affrettati, il tempo scade. Non puoi
permetterti di perdere tempo, cogli al volo l’oggi, l’attimo fuggente.
Attendere, prego
La nostra società negli ultimi decenni ha subito tante trasformazioni, ma sul tempo ha mantenuto
dei punti fermi: massimalizzazione dei profitti. La tecnologia ha quasi totalmente annullato i tempi
morti. Le distanze si fanno sempre più brevi grazie alla rete, ai mezzi di trasporto sempre più veloci.
Spendiamo i nostri giorni in una società che promette tempo e invece il tempo lo consuma. Le
nostre biografie, così spremute, risultano accelerate, se non schiacciate sul presente. Non c’è tempo
per la memoria, per ricordare, per rielaborare il vissuto.
Noi siamo l’oggi che incalza e ci toglie il fiato. Probabilmente è anche perché siamo così sbilanciati
sull’immediato che fatichiamo a ritrovare una progettualità, a guardare al domani con sentimenti di
speranza e attesa.
Il tempo corre tiranno in una società dove tutto viene vissuto con ritmi accelerati e attendere
significa perdere tempo. È forse per questo che proviamo un senso di fastidio bloccati nel traffico,
nelle file alla posta o quando veniamo lasciati in attesa al telefono: «attendere prego!».
Viviamo i tempi di attesa come un insopportabile ostacolo alla corsa della vita. Che il movimento
sia interrotto dalla sosta, che le parole siano minacciate dal silenzio, che il fare sia costretto a
lasciare il posto al pensare: tutto questo ci sembra un’inutile perdita di tempo.
Tutto e subito
Perché del resto attendere quando possiamo avere tutto e subito? Perché attendere per comperare
una casa, avere una macchina o più banalmente per goderci una bella vacanza? Basta un mutuo, un
prestito, comode rate… Non si vuole banalizzare la fatica di chi non avendo una casa e non
riuscendo a trovare un affitto, è costretto ad accedere all’abitazione solo attraverso il mutuo. Ma non
possiamo tacere i rischi racchiusi in una cultura che valorizza il presente a scapito del futuro, di un
mercato che ti affascina con l’offerta di un prestito e ti convince che tu puoi comperare qualsiasi
cosa anche se non hai i mezzi. I desideri si riducono così a bisogni da soddisfare nell’immediato.
Non c’è più capacità di attesa, né tantomeno discernimento di priorità. È una nuova schiavitù quella
che vincola tutti coloro che accedono a prestiti e sono costretti a vendere il proprio tempo futuro per
pagare ciò che hanno consumato nel presente. È poi così diversa la nostra condizione da quella di
quegli ebrei che, nella Bibbia, non potendo saldare il proprio debito, erano costretti a consegnarsi
come schiavi ai loro creditori? Non più di sette anni però poteva durare tale servizio. I nostri mutui,
generalmente, durano quattro volte di più.
Insegnaci a contare i nostri giorni
Come stiamo vivendo? Siamo così immersi in ciò che facciamo che la prospettiva di fermarci, di
interrompere il flusso delle tante attività ci mette panico.
Che valore diamo al nostro tempo? Quali attese ci abitano? «Insegnaci a contare i nostri giorni»
prega il salmista. Perché noi siamo fatti di giorni, quelli che abbiamo già abitato, il tempo dell’oggi
e quello dell’attesa futura. Meravigliose creature, tessute di continuità e cambiamento. Fragili come
clessidre di cristallo. E così facile che le nostre vite si crepino nella corsa e la sabbia si disperda
trasformando in deserto i nostri giorni.
Le chiese che frequentiamo? Sono il nostro specchio. Quante attività proponiamo alla città, alla
comunità senza davvero interrogarci sul senso del progetto. Preoccupati di fare, di riempire
l’agenda.
Si può vivere anche un’intera vita di fede all’insegna delle tante cose da fare.
E non ci viene in aiuto una certa teologia che ha insistito troppo sul compimento delle promesse (in
Gesù è finita ogni attesa), dimenticando l’invito di Gesù a vegliare ad attendere la sua venuta, i
nuovi cieli e la nuova terra… Riscoprire nella fede una tensione tra promessa e compimento ci aiuta
a curare un po’ della nostra miopia, ci strappa dall’immediato per ampliare il nostro orizzonte.
Una spiritualità dell’attesa
La sfida è dunque quella di imparare di nuovo la «grammatica dell’attesa», svuotandoci un po’ della
nostra fretta e delle nostre sicurezze e lasciando spazio a quel Dio che vuole sorprenderci. Potrebbe
essere un itinerario per il tempo di Avvento, un modo per prepararci al Natale e, un po’ più in là un
aiuto per riconciliarci con i ritmi delle nostre vite, ridefinendo le priorità e ritrovare il respiro della
vita.