Author Archives: don.fabrizio

Quattro giorni che lasceranno il segno

di Andrea Tornielli

da “L’osservatore Romano” del 22 febbraio

L’incontro sulla protezione dei minori che si svolge in Vaticano è destinato a lasciare il segno.
Prima ancora che per l’approfondimento sulle indispensabili indicazioni concrete su ciò che va fatto di fronte alla piaga degli
abusi, a lasciare il segno sarà la presa di coscienza da parte di tutta la Chiesa delle conseguenze drammatiche e incancellabili provocate sui minori che li hanno subiti. La voce dei bambini e dei ragazzi vittime indifese di queste turpi violenze non rimarrà inascoltata.
Il loro grido è destinato a infrangere la barriera di silenzio che troppo a lungo ha impedito di comprendere.
Il primo obiettivo, sulla scia della personale testimonianza degli ultimi due Pontefici, che hanno sistematicamente incontrato i sopravvissuti, li hanno ascoltati e hanno pianto e pregato con loro, è dunque la consapevolezza che l’abuso sui minori da parte di chierici e religiosi rappresenta un atto abominevole.
Un atto che trafigge per sempre l’anima di bambini e bambine affidati dai loro genitori ai sacerdoti perché li educassero nella fede. Non si tratta innanzitutto di una questione di leggi e di norme, né di cavilli burocratici e nemmeno di statistiche. Si tratta di ascoltare le vittime, cercare di condividere il loro doloroso dramma, per far proprie le devastanti ferite che hanno subito. È un cambio di mentalità quello che viene richiesto, perché mai più nessuno finga di non vedere, insabbi, copra, minimizzi.
Per la prima volta il tema verrà affrontato in chiave globale, secondo le diverse esperienze e culture.
Il primo giorno il tema principale è stato quello della responsabilità dei vescovi nel loro compito pastorale, spirituale e giuridico. Il secondo giorno si è trattato soprattutto del “render conto”, dell’accountability, discutendo le soluzioni da adottare in accordo con il Diritto Canonico per valutare i casi in cui i pastori sono venuti meno al loro compito e hanno agito con negligenza. Infine il terzo giorno è stato dedicato all’impegno per la trasparenza, nelle procedure interne alla Chiesa, nei confronti delle autorità civili ma soprattutto di fronte al popolo di Dio, il cui contributo per rendere più sicuri i luoghi frequentati dai minori è indispensabile. La conclusione dei lavori, domenica, dopo la Messa celebrata nella Sala Regia, è affidata a Papa Francesco.
Quello che si celebra in Vaticano è innanzitutto un evento ecclesiale, un dialogo fra pastori in comunione con il Successore di Pietro. È per questo che la preghiera, accompagnata dall’ascolto delle vittime, scandirà ogni appuntamento. I primi tre giorni di lavoro sono culminati nella liturgia penitenziale proprio perché, di fronte all’abisso del peccato, e di un peccato così grave e abominevole, i credenti sono chiamati a chiedere umilmente perdono per la ferita inferta al corpo ecclesiale e alla sua possibilità di testimonianza evangelica. Questo nuovo passo è per la Chiesa l’ultimo in ordine di tempo di una lunga serie iniziata poco meno di vent’anni fa con l’introduzione di leggi sempre più severe ed efficaci per contrastare la piaga degli abusi. Procedure che hanno permesso di ridurre drasticamente il numero dei casi, come dimostrano tutti i report pubblicati di recente: le denunce che emergono riguardano infatti, nella stragrande maggioranza, casi risalenti a molti anni fa, avvenuti prima dell’entrata in vigore delle nuove norme. Con l’incontro che si è svolto in Vaticano la Chiesa indica così una strada non soltanto alle proprie gerarchie e alle proprie comunità, ma offre pure una sofferta testimonianza e un impegno preciso a tutta la società. Perché la protezione dei minori è questione che riguarda tutti, come dimostrano le impressionanti cifre sui minori abusati nel mondo.

Quaresima 2019

Il tempo di quaresima è tempo propizio per un “ritorno al Signore”, attraverso un “ritorno a se stessi”.
I momenti comunitari sono allora occasione per «ricentrare» la propria vita spirituale e orientarla alla Pasqua di resurrezione.

Il nostro cammino quaresimale sarà scandito da questi momenti:

“Se oggi ascoltate la sua voce…”
Serata di riflessione e formazione sulla liturgia

26 febbraio – Basilica – ore 21.00

Questa serata intende proseguire il discorso avviato nel novembre scorso, quando abbiamo riflettuto sul nostro celebrare.

Questa volta approfondiremo il tema della “proclamazione della Parola di Dio” all’interno della messa.

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Mercoledì delle ceneri

6 marzo – Basilica – ore 20.00

È la celebrazione che dà inizio alla quaresima. Rappresenta un momento particolarmente ricco e significativo.

Insieme – come comunità – accogliamo l’invito del Signore alla conversione del cuore.

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Laboratori di Quaresima

12 marzo (a cura della equipe)
26 marzo (don Carlo Vinco, presbitero della diocesi di Verona)

Basilica – ore 21.00

I laboratori sono invito a fermarsi e a riflettere insieme sugli aspetti decisivi della vita umana e spirituale.

Quest’anno ci faremo guidare dal documento di Papa Francesco: “Gaudete et exsultate”, sulla santità nella vita quotidiana.

«Ritornate a me con tutto il cuore»
Liturgia penitenziale

1 aprile – Basilica – ore 21.00

La celebrazione del perdono di Dio è l’occasione per riconoscere come singoli e come comunità le fragilità che ci abitano e le ferite che provochiamo.

Soprattutto è opportunità per riconciliarci tra noi e rallegrarsi dell’amore smisurato di Dio Padre.

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Domenica comunitaria

14 aprile – Basilica – ore 17.00

Accompagnati da Sr. Grazia Papola, brillante biblista di Verona, ci metteremo in ascolto dei vangeli della Resurrezione per prepararci alla Pasqua.

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“Uomini e rinoceronti.
I chiaroscuri della nostra umanità”
Riflessioni sulla società, sul nostro paese e sulla Chiesa
Prof. Giuseppe Savagnone

– Venerdì 29 marzo – Chiesa di Castelnuovo R., ore 21.00 –


Lungo tutto il tempo di quaresima ci saranno diversi appuntamenti per celebrare personalmente il sacramento della riconciliazione:

don Luca sarà disponibile per le confessioni:

Sabato 2, 16, 30 marzo: dalle 18.00 alle 19.00 in Basilica

Sabato 6 aprile: dalle 18.00 alle 19.00 in Basilica

Sabato 13 aprile, dalle 17.00 alle 19.00 in Basilica

Sabato 20 aprile: dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 19.00 in Basilica

In nome di Dio e della “fratellanza umana”

Il documento sulla “Fratellanza umana” del Grande Imam di Al-Azhar edi Sua Santità Papa Francesco

La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.

Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi.

Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo “Documento sulla Fratellanza Umana”. Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.

Per leggere l’intero documento clicca qui

Seminatori di speranza

Messaggio alla città del vescovo Erio in occasione della festa di San Geminiano.

La speranza non è solo l’ultima a morire, come dice il proverbio, ma è soprattutto la prima e fondamentale spinta a vivere. Una persona senza speranza si lascia spegnere o al massimo si rassegna a sopravvivere. Noi mettiamo però in gioco la speranza non solo di fronte all’orizzonte finale dell’esistenza, ma anche nelle piccole scelte di ogni giorno.
L’uomo vive in quanto progetta, cioè letteralmente “getta avanti” a sé, tende verso una mèta, grande o piccola che sia. Viceversa, muore interiormente se non scorge più dei traguardi davanti a sé: allora si sente inutile e si lascia andare. Le speranze degli individui si travasano nella comunità e le speranze che sostengono una comunità influenzano gli individui. Esiste un’osmosi della speranza tra singoli e società. Per questo si parla anche di speranza sociale, intendendo la passione con cui una comunità “getta avanti” a sé lo sguardo e si muove su orizzonti di futuro. Uno degli indicatori della speranza sociale è la questione demografica. Da qualche tempo l’espressione segnala la decrescita della popolazione, ossia la differenza negativa tra i morti e i nati nell’arco di un anno. In Italia questa forbice è diventata così ampia da destare serie preoccupazioni: negli ultimi anni lo sbilancio tra nati e morti è di circa 190.000 persone all’anno. Per trovare un saldo più negativo di questo dobbiamo andare indietro di un secolo. Non è certo necessario dimostrare la correlazione tra il cosiddetto tasso di natalità di un paese e la capacità di progettare il futuro. In una società che invecchia prevale facilmente la nostalgia sulla fiducia, il lamento sul sogno, il rimpianto sulla novità. […] A buon diritto gli studiosi parlano di invecchiamento dell’Italia. La proporzione tra giovani e anziani in un paese è stata paragonata a una piramide, che è solida quando possiede una buona e larga base e poi sale, riducendosi, fino ad una punta anche molto elevata. La base della piramide è formata dai bambini, ragazzi e giovani; il corpo centrale dagli adulti e la punta dagli anziani. Noi da qualche anno stiamo andando verso una sorta di piramide rovesciata. Forse anche per questo motivo i giovani si sentono scarsamente propensi a “pro-gettare” il
loro futuro. Se l’invecchiamento in Italia è un dato di fatto, l’interpretazione del dato, le cause del fenomeno e le proiezioni sono invece oggetto di discussione. Le cause sono innumerevoli e difficili da districare. […] Ormai da tempo gli esperti segnalano la situazione a chiunque possa intervenire, partendo dai politici e dai governanti. La politica però non sembra ritagliata sulle grandi speranze, ma su quelle di corto raggio. Di qui la frequente adozione di provvedimenti-tampone anziché misure strutturali ad ampio respiro. Di fatto le politiche economiche nazionali hanno favorito piuttosto i singoli rispetto alle famiglie. […] I paesi occidentali che hanno effettivamente sostenuto la famiglia con politiche sociali incisive e concrete a tutela della genitorialità, destinandovi risorse percentualmente maggiori e persino doppie o triple rispetto a quelle italiane, sono riusciti a frenare l’inverno demografico. Le piste sono tracciate da tempo, come dimostrano le esperienze positive di questi paesi: ingresso più celere dei giovani nel mercato del lavoro; maggiori incentivi alla professionalità femminile che non costringa la donna a scegliere tra lavoro e maternità; la riduzione del costo dei figli attraverso il quoziente familiare, gli incentivi fiscali e la disponibilità di servizi per l’infanzia a costo accessibile e ragionevole; le agevolazioni alle coppie che si impegnano a costituire una famiglia anche per l’accesso alla prima casa. Sono politiche per le quali ovviamente servono risorse, il cui impiego verrebbe però abbondantemente compensato, anche dal punto di vista economico. […]
Una gestione equilibrata e lungimirante del fenomeno migratorio può pure concorrere a migliorare la situazione. Una saggia politica di regolazione dei flussi migratori evita infatti di alimentare le paure e di evocare lo spettro dell’invasione e cerca piuttosto di promuovere l’inclusione sociale degli immigrati, che favorisce la crescita economica in Italia, come dimostrano le statistiche. È chiaro comunque che i migranti non possono essere visti come “la soluzione” del problema demografico. Prima di tutto perché gli arrivi in Italia sono drasticamente diminuiti nel 2018 rispetto agli anni precedenti: poco più di 23.000, quasi 100.000 in meno rispetto al 2017 e quasi 160.000 in meno rispetto al 2016. Una volta integrati in Italia, del resto, gli immigrati tendono ad imitare il comportamento dei nativi anche per quanto riguarda il numero dei figli. A proposito di migrazioni, infine, è bene ricordare anche il flusso in uscita: si mantiene infatti costante l’emigrazione annua “definitiva” verso l’estero di oltre 100.000 italiani, una parte consistente dei quali sono giovani in cerca di impiego. Ciò significa che si corre il rischio di lasciare uscire dall’Italia maggiori potenzialità di quante se ne lascino entrare. Quelli appena delineati non sono ovviamente obiettivi semplici e di corto raggio. Sono però obiettivi gradualmente perseguibili, a patto di impostare le scelte pensando alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni. Qualcuno dovrà pur rischiare una certa impopolarità nel presente per garantire un mondo migliore nel futuro. Concludo accennando al contributo che le comunità cristiane possono offrire, insieme a tutti coloro che hanno a cuore il bene comune. […] La Chiesa è chiamata a seminare speranza: dentro la grande e fondamentale speranza della vita oltre la morte, dentro le piccole e quotidiane speranze che sostengono la vita terrena, perché l’inverno demografico lasci gradualmente il campo alla primavera.

Per il testo completo clicca qui

“Voi siete l’adesso di Dio”. Papa Francesco ai giovani

Omelia per la messa della Giornata Mondiale della Gioventù a Panamà.

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”» (Lc 4,20-21).

Così il Vangelo ci presenta l’inizio della missione pubblica di Gesù. Lo presenta nella sinagoga che lo ha visto crescere, circondato da conoscenti e vicini e chissà forse anche da qualche sua “catechista” di infanzia che gli ha insegnato la legge. Momento importante nella vita del Maestro, con cui il bambino che si era formato ed era cresciuto in seno a quella comunità, si alzava in piedi e prendeva la parola per annunciare e attuare il sogno di Dio. Una parola proclamata fino ad allora solo come promessa di futuro, ma che in bocca a Gesù si poteva solo dire al presente, facendosi realtà: «Oggi si è compiuta».

Gesù rivela l’adesso di Dio che ci viene incontro per chiamare anche noi a prendere parte al suo adesso, in cui «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi» e «proclamare l’anno di grazia del Signore». È l’adesso di Dio che con Gesù si fa presente, si fa volto, carne, amore di misericordia che non aspetta situazioni ideali o perfette per la sua manifestazione, né accetta scuse per la sua realizzazione. Egli è il tempo di Dio che rende giusti e opportuni ogni situazione e ogni spazio. In Gesù inizia e si fa vita il futuro promesso.

Quando? Adesso. Ma non tutti quelli che là lo ascoltarono si sono sentiti invitati o convocati. Non tutti i vicini di Nazaret erano pronti a credere in qualcuno che conoscevano e avevano visto crescere e che li invitava a realizzare un sogno tanto atteso. Anzi, dicevano: “Ma non è il figlio di Giuseppe?”.

Anche a noi può succedere la stessa cosa. Non sempre crediamo che Dio possa essere tanto concreto e quotidiano, tanto vicino e reale, e meno ancora che si faccia tanto presente e agisca attraverso qualche persona conosciuta come può essere un vicino, un amico, un familiare. Non sempre crediamo che il Signore ci possa invitare a lavorare e a sporcarci le mani insieme a Lui nel suo Regno in modo così semplice ma incisivo. Ci costa accettare che «l’amore divino si faccia concreto e quasi sperimentabile nella storia con tutte le sue vicissitudini dolorose e gloriose».

E non sono poche le volte in cui ci comportiamo come i vicini di Nazaret, quando preferiamo un Dio a distanza: bello, buono, generoso, ben disegnato, ma distante e, soprattutto che non scomodi, un Dio “addomesticato”. Perché un Dio vicino e quotidiano, un Dio amico e fratello ci chiede di imparare vicinanza, quotidianità e soprattutto fraternità. Egli non ha voluto manifestarsi in modo angelico o spettacolare, ma ha voluto donarci un volto fraterno e amico, concreto, familiare. Dio è reale perché l’amore è reale, Dio è concreto perché l’amore è concreto. Ed è precisamente questa «concretezza dell’amore ciò che costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei cristiani».

Anche noi possiamo correre gli stessi rischi della gente di Nazaret, quando nelle nostre comunità il Vangelo vuole farsi vita concreta e cominciamo a dire: “ma questi ragazzi, non sono figli di Maria, di Giuseppe, non sono fratelli di?… parenti di…? Questi non sono i ragazzini che noi abbiamo aiutato a crescere?… Che stia zitto, come possiamo credergli? Quello là, non era quello che rompeva sempre i vetri col pallone?”. E uno che è nato per essere profezia e annuncio del Regno di Dio viene addomesticato e impoverito. Voler addomesticare la Parola di Dio è una tentazione di tutti i giorni.

E anche a voi, cari giovani, può succedere lo stesso ogni volta che pensate che la vostra missione, la vostra vocazione, perfino la vostra vita è una promessa che però vale solo per il futuro e non ha niente a che vedere col presente. Come se essere giovani fosse sinonimo di “sala d’attesa” per chi aspetta il turno della propria ora. E nel “frattanto” di quell’ora, inventiamo per voi o voi stessi inventate un futuro igienicamente ben impacchettato e senza conseguenze, ben costruito e garantito e con tutto “ben assicurato”. Non vogliamo offrirvi un futuro di laboratorio! È la “finzione” della gioia, non la gioia dell’oggi, del concreto, dell’amore. E così con questa finzione della gioia vi “tranquillizziamo”, vi addormentiamo perché non facciate rumore, perché non disturbiate troppo, non facciate domande a voi stessi e a noi, perché non mettiate in discussione voi stessi e noi; e in questo “frattanto” i vostri sogni perdono quota, diventano striscianti, cominciano ad addormentarsi e sono “illusioni” piccole e tristi, solo perché consideriamo o considerate che non è ancora il vostro adesso; che siete troppo giovani per coinvolgervi nel sognare e costruire il domani. E così continuiamo a rimandarvi… E sapete una cosa? A molti giovani questo piace. Per favore, aiutiamoli a fare in modo che non gli piaccia, che reagiscano, che vogliano vivere l’“adesso” di Dio.

Uno dei frutti del recente Sinodo è stata la ricchezza di poterci incontrare e, soprattutto, ascoltare. La ricchezza dell’ascolto tra generazioni, la ricchezza dello scambio e il valore di riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che dobbiamo sforzarci di favorire canali e spazi in cui coinvolgerci nel sognare e costruire il domani già da oggi. Ma non isolatamente, uniti, creando uno spazio in comune. Uno spazio che non si regala né lo vinciamo alla lotteria, ma uno spazio per cui anche voi dovete combattere. Voi giovani dovete combattere per il vostro spazio oggi, perché la vita è oggi. Nessuno ti può promettere un giorno del domani: la tua vita è oggi, il tuo metterti in gioco è oggi, il tuo spazio è oggi. Come stai rispondendo a questo?

Voi, cari giovani, non siete il futuro. Ci piace dire: “Voi siete il futuro…”. No, siete il presente! Non siete il futuro di Dio: voi giovani siete l’adesso di Dio! Lui vi convoca, vi chiama nelle vostre comunità, vi chiama nelle vostre città ad andare in cerca dei nonni, degli adulti; ad alzarvi in piedi e insieme a loro prendere la parola e realizzare il sogno con cui il Signore vi ha sognato.

Non domani, adesso, perché lì, adesso, dov’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore (cfr Mt 6,21); e ciò che vi innamora conquisterà non solo la vostra immaginazione, ma coinvolgerà tutto. Sarà quello che vi fa alzare al mattino e vi sprona nei momenti di stanchezza, quello che vi spezzerà il cuore e che vi riempirà di meraviglia, di gioia e di gratitudine. Sentite di avere una missione e innamoratevene, e da questo dipenderà tutto (cfr Pedro Arrupe, S.J., Nada es más práctico). Potremo avere tutto, ma, cari giovani, se manca la passione dell’amore, mancherà tutto. La passione dell’amore oggi! Lasciamo che il Signore ci faccia innamorare e ci porti verso il domani!

Per Gesù non c’è un “frattanto”, ma un amore di misericordia che vuole penetrare nel cuore e conquistarlo. Egli vuole essere il nostro tesoro, perché Gesù non è un “frattanto” nella vita o una moda passeggera, è amore di donazione che invita a donarsi.

È amore concreto, di oggi vicino, reale; è gioia festosa che nasce scegliendo di partecipare alla pesca miracolosa della speranza e della carità, della solidarietà e della fraternità di fronte a tanti sguardi paralizzati e paralizzanti per le paure e l’esclusione, la speculazione e la manipolazione.

Fratelli, il Signore e la sua missione non sono un “frattanto” nella nostra vita, qualcosa di passeggero, non sono soltanto una Giornata Mondiale della Gioventù: sono la nostra vita di oggi e per il cammino!

Per tutti questi giorni in modo speciale ci ha accompagnato come una musica di sottofondo il fiat di Maria. Lei non solo ha creduto in Dio e nelle sue promesse come qualcosa di possibile, ha creduto a Dio e ha avuto il coraggio di dire “sì” per partecipare a questo adesso del Signore. Ha sentito di avere una missione, si è innamorata e questo ha deciso tutto. Che voi possiate sentire di avere una missione, che vi lasciate innamorare, e il Signore deciderà tutto.

E come avvenne nella sinagoga di Nazaret, il Signore, in mezzo a noi, ai suoi amici e conoscenti, di nuovo si alza in piedi, prende il libro e ci dice: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Cari giovani, volete vivere la concretezza del suo amore? Il vostro “sì” continui ad essere la porta d’ingresso affinché lo Spirito Santo doni una nuova Pentecoste, alla Chiesa e al mondo. Così sia.

Caritas lombarde: assistere gli irregolari, lo dice la legge

di Lorenzo Rosoli
in “Avvenire” del 23 gennaio 2019

«Le Caritas della Lombardia non allontaneranno dai centri di accoglienza che gestiscono i migranti che ne perderanno il  diritto, in applicazione del cosiddetto decreto Salvini. Gli ospiti rimarranno nei centri, a totale carico degli organismi ecclesiali». Così un comunicato diffuso ieri ribadisce quanto anticipato lunedì sera da Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana e delegato regionale Caritas. La decisione riguarderà in particolare «i titolari di permesso per motivi umanitari e coloro che riceveranno il nuovo permesso per protezione speciale che non potrebbero più essere accolti nel nuovo sistema di accoglienza (ex Sprar). Si stima – prosegue il comunicato – che saranno almeno 500 gli ospiti che beneficeranno di questa scelta e che, diversamente, secondo il nuovo provvedimento del governo tradotto nella legge 132/18, sarebbero usciti dal sistema di protezione».
Le Caritas lombarde, dunque, non mandano in strada nessuno di quanti già oggi ospitano e affiancano in esperienze di accoglienza sempre orientate all’integrazione e all’autonomia.

Una scelta meditata, condivisa, confermata dagli organismi ecclesiali. Che si sono confrontati anche sull’ospitalità dei «cosiddetti irregolari», cioè quanti «rimarranno privi di un titolo di soggiorno per la permanenza sul territorio italiano – per la scadenza del permesso umanitario non rinnovato perché privi del lavoro e in assenza dei presupposti per avere la nuova protezione speciale da parte della Commissione territoriale, o perché hanno ricevuto il diniego della domanda di asilo senza
ricorso, o senza sospensione del provvedimento in caso di ricorso».

Attingiamo, qui, alla relazione che Gualzetti tenne all’incontro della Conferenza episcopale lombarda svoltosi il 9 e 10 gennaio a Caravaggio alla presenza del presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. «Dal punto di vista giuridico – spiegò Gualzetti in quell’occasione – sappiamo che non vi è alcun rischio nel garantire l’ospitalità di stranieri in stato di bisogno soprattutto se non ci sono di mezzo soldi pubblici e se non viene richiesto un corrispettivo agli interessati o a terzi. Ai sensi dell’articolo 12 comma 2 del testo unico 286/98: ‘…non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza
umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato’».
Mentre, dunque, si registrano sempre più richieste dalle prefetture di allontanare quanti non hanno più titolo a rimanere nei centri convenzionati, le Caritas lombarde rinnovano il loro «no» al decreto Salvini. «Promuovere l’integrazione degli immigrati, tutelare la loro dignità e i loro diritti, è il modo migliore per promuovere la sicurezza dei lombardi. Mentre espellere i migranti dalla rete dell’accoglienza – come fa il decreto sicurezza – significa trasformarli in ‘fantasmi’, costretti a
vivere di elemosina, espedienti, lavoro nero o altro. ‘Fantasmi’ che presto o tardi troveremo ai nostri centri d’ascolto, mense e servizi, in coda assieme agli italiani poveri», spiega Gualzetti ad Avvenire.

Su 26.864 posti messi a disposizione in Lombardia dal sistema di accoglienza dei profughi e dei richiedenti asilo, 4.514 sono offerti da strutture delle dieci diocesi lombarde: 3.129 nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) gestiti in convezione con le prefetture, 847 negli Sprar dei Comuni, 163 nel centri per minori stranieri non accompagnati. Se le Caritas diocesane decideranno di partecipare «alle nuove convenzioni con le prefetture – annuncia Gualzetti – continueranno in ogni caso a garantire, sempre a proprie spese, i percorsi di integrazione avviati» come «i corsi professionali e i tirocini in azienda». Proseguirà inoltre l’impegno con Caritas italiana «per incrementare il numero degli ospiti» accolti con i «corridoi umanitari», altra iniziativa a carico della Chiesa. «Rispettiamo le istituzioni e collaboriamo lealmente con loro – conclude Gualzetti – ma in questo caso la nostra coscienza ci impone di andare oltre quanto previsto dallo Stato, per il bene dei nostri ospiti, ma anche delle comunità che li accolgono, che si troverebbero a fare i conti con migranti abbandonati a loro stessi e facile preda dei circuiti irregolari».

Ricominciamo dal rispetto. L’augurio del Capo dello Stato.

di Gianfranco Marcelli

in www. avvenire.it del 1 gennaio 2019

Con i toni sereni e pacati che gli sono propri, ma lanciando alcuni chiari segnali al Paese e a chi oggi lo governa, Sergio Mattarella ha rivolto lunedì sera agli italiani il settantesimo messaggio di Capodanno nella storia della Repubblica. Il Presidente ha chiuso la prima parte del suo discorso con l’invito a sentirsi fino in fondo una «comunità», capace di «condividere valori, prospettive, diritti e doveri». Una comunità, soprattutto, capace di rispettarsi al suo interno, disposta a rinunciare alla semina incessante dell’odio politico, del disprezzo sistematico, dell’insulto a buon mercato. La parola chiave di questo messaggio è forse proprio «rispetto», merce sempre più rara in un contesto politico e comunicativo dove negare anche la minima considerazione all’avversario viene sbandierato come un vanto o una qualità. Lo ha ricordato il 1 gennaio anche papa Francesco, in sintonia significativa con Mattarella, con il quale ha scambiato a distanza gli auguri per l’anno nuovo: «Mostrarsi cattivi talvolta pare persino sintomo di fortezza, ma è solo debolezza». È certamente necessario «battersi per le proprie idee», ma occorre «rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore». Questa non è «retorica dei buoni sentimenti», non si può sostenere che «la realtà è purtroppo un’altra; che vi sono tanti problemi e che bisogna pensare soprattutto alla sicurezza». La sicurezza, prosegue, non consiste in un difendersi dagli altri, ma si fonda proprio su questo sentirsi parte di un’unica comunità, di «un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune», perché la sicurezza nasce dal rispetto dell’altro. C’è poi il rispetto per le attese dei giovani, per la dignità degli anziani, per chi fa silenziosamente ogni giorno il proprio dovere. E in particolare, il rispetto per quella che il Presidente ha definito l’«Italia che ricuce»: ovvero quanti si spendono gratuitamente per i più sfortunati tra i nostri concittadini, spesso dimenticati dalle istituzioni. Qui il messaggio del Capo dello Stato sul Terzo Settore, minacciato da inasprimenti fiscali dalle conseguenze devastanti, non poteva essere più esplicito: niente «tasse sulla bontà», figlie di una logica punitiva e in ultima analisi autolesionista per le stesse finanze pubbliche. C’è inoltre, e non è un elemento secondario, quello che potremmo definire il rispetto per noi stessi, per la capacità del Paese di farcela nonostante tutti i cultori dell’autodenigrazione nazionale, contando sui traguardi raggiunti finora (come il Servizio sanitario nazionale che ha appena compiuto 40 anni) e sulle risorse di cui ancora disponiamo, nonostante le difficoltà innegabili che solo «il lavoro tenace, coerente, lungimirante» può affrontare. Ma è il fronte del rispetto per le istituzioni e per i suoi uomini quello che al Presidente premeva in particolar modo evidenziare, in un fine anno reso incandescente dal varo in extremis della manovra economica. Perché sarà vero che non è stato questo Governo a inaugurare la prassi di ridurre il Parlamento a mera sede di ratifica delle leggi, senza possibilità effettiva di discussione o di modifica, ma mai come questa volta si è assistito all’annullamento totale anche solo del tempo di lettura delle norme poste in votazione. Il messaggio parla di «grande compressione dell’esame parlamentare» e di «mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali», con l’invito a fare da adesso in poi, in sede di attuazione e di verifica dei provvedimenti assunti, quello che non si è fatto prima. È implicito l’avvertimento che il Quirinale svolgerà il suo compito è di vigilanza senza altri sconti. Mentre è molto netta e chiara, in tempi in cui si parla di soldati da usare per tappare le buche stradali della Capitale, la richiesta di non “snaturare” i compiti e le alte competenze delle Forze dell’ordine e delle Forze armate. Nonostante tutto Mattarella manifesta ancora fiducia nel Paese di cui incarna l’unità nazionale, gli esprime gratitudine e stima, forte delle tantissime esperienze di contatti ravvicinati con i mondi della solidarietà e del volontariato. Dopo questo messaggio, così ci sembra, l’Italia può ampiamente ricambiare.

La buona politica è al servizio della pace

Dal messaggio di Papa Francesco per la 52° Giornata mondiale della pace

Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”.  Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo. E questa offerta è rivolta a tutti coloro che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana. La “casa” di cui parla Gesù è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.

Sia questo dunque anche il mio augurio all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”.

La sfida della buona politica  Come sottolineava Papa San Paolo VI: «Prendere sul serio la politica significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità».  In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.

Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi,  che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della “ragion di Stato”, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio. Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona.  La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali. Una tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse. In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno. Oggi più che mai, le nostre società necessitano di “artigiani della pace” che possano essere messaggeri e testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana. Cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi, sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate.

Una sfida per tutti. La pace è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli esseri umani, ma è anche una sfida che ci chiede di essere accolta giorno dopo giorno. La pace è una conversione del cuore e dell’anima, ed è facile riconoscere tre dimensioni indissociabili di questa pace interiore e comunitaria:

– la pace con sé stessi, rifiutando l’intransigenza, la collera e l’impazienza e, come consigliava San Francesco di Sales, esercitando “un po’ di dolcezza verso sé stessi”, per offrire “un po’ di dolcezza agli altri”;

– la pace con l’altro: il familiare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente…; osando l’incontro e ascoltando il messaggio che porta con sé;

– la pace con il creato, riscoprendo la grandezza del dono di Dio e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi, come abitante del mondo, cittadino e attore dell’avvenire.

Vite donate a Dio e all’Algeria

A Tibhirine nel monastero dei sette trappisti rapiti e uccisi nel 1996 tutto è come allora. Così l’estremo sacrificio li ha resi testimoni profetici della forza disarmata del dialogo.
Diciannove, tra cui un vescovo e sei suore, i religiosi che sono stati beatificati sabato 8 dicembre. Tutti uccisi in odio alla fede tra il 1994 e il 1996. Nel testamento spirituale di padre de Chergé il senso più vero della convivenza: l’altro è sempre un fratello.
È una mattina gelida e nebbiosa sulle alture di Medea. E il monastero di Tibhirine, nonostante la sua mole imponente, si cela tra queste brume autunnali, gonfie di vapori. Sfumano i contorni delle montagne dell’Atlas e le nebbie rendono questo luogo come sospeso nel tempo. Sembra di essere nella scena finale di “Uomini di Dio”, il film di Xavier Beauvois, che ha portato sullo schermo con straordinaria efficacia la vicenda drammatica dei sette monaci trappisti di Notre Dame de l’Atlas rapiti e uccisi nel 1996, durante il decennio funesto del terrorismo in Algeria. In silenzio, scortati dai loro rapitori erano spariti nella nebbia che avvolge un sentiero di montagna innevato. La loro fine la si lascia solo intuire. È un “ad-Dio”, come scrive il priore Christian de Chergé, il compimento di una «vita donata – in anticipo – a Dio e questo Paese» e per questo poche settimane prima del suo rapimento nel diario aveva anticipato: «La nostra morte è inclusa nel dono, non ci appartiene». Dei sette martiri furono recuperate solo le teste mozzate dai carnefici. I loro cippi bianchi tra i cipressi giacciono oggi qui in tutta la loro nudità nel giardino del monastero accanto alla sorgente d’acqua el Margouma, che continua a irrigare e a rendere fertile quest’angolo di terra e alle tombe dei loro confratelli che qui vissero e morirono durante i sessant’anni anni di presenza trappista su queste alture, a un centinaio di chilometri a sud della capitale Algeri. Proprio i sette monaci trappisti dell’Atlas, portati via dal monastero arrampicato sul monte, che era diventato luogo spirituale per eccellenza non solo per i cristiani (qui si tenevano gli incontri del Ribât es-Salâm, esperienza di dialogo e amicizia con i musulmani), rappresentano l’emblema di quel martirio d’Algeria che oggi si avvia agli altari. Perché a Tibhirine è una testimonianza collettiva a vocazione universale che gli assassini hanno voluto mettere a tacere. Per questo, dopo il ritrovamento dei resti dei monaci sul ciglio della strada verso Notre Dame de l’Atlas, quando il testamento di fratel Christian si trasforma in una delle pagine spirituali più alte del XX secolo, il priore di Tibhirine diventa il portavoce non solo dei compagni massacrati con lui – i fratelli Christophe Lebreton, Luc Dochier, l’anziano medico del corpo e dell’anima che aveva curato qui quasi seicentomila algerini, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard e Paul Favre-Miville ma anche di tutti gli altri martiri d’Algeria. Le porte azzurre delle loro celle disadorne sono rimaste come allora. I mantelli bianchi per la preghiera appesi davanti all’entrata della cappella. Il chiostro con l’albero d’arance piantato da fratel Luc. La pagina in arabo aperta sul passo del Vangelo delle Beatitudini su cui hanno informato alla lettera tutta la loro vita per divenire riconosciuti Ibn al bald “figli di questa terra” nella “casa dell’islam”. A condurci nel monastero è Felicité Moizard, una dei quattro consacrati della comunità “Chemin de neuf”, la comunità francese a vocazione ecumenica ispirata dal rinnovamento carismatico ed impregnata dalla spiritualità ignaziana, che da due anni abita qui. «I monaci hanno vissuto con semplicità la convivenza con l’altro nella vita di tutti i giorni. Nella perseveranza dell’amore si diventa come pozzi che irrigano il deserto, si diventa costruttori di ponti. Vogliamo così continuare a vivere la loro eredità». Nella sala del capitolo ci riuniamo per un frugale pasto con i frati ospiti davanti alle finestre che si spalancano sulle terrazze di meli della valle dell’Atlas. «Proprio qui – ci dice padre Eugenie Lehemabre – nell’incalzare del clima di violenza i monaci avevano preso la decisione comune di restare. La scelta di solidarietà fino alla fine in nome del Vangelo e nella ricerca di quell’umanità plurale in cui riconoscere l’altro come fratello è la testimonianza che rende possibile l’amicizia fraterna e rispettosa di uomini e donne diversi». «Cacciati da un luogo, andremo in un altro » – si spiegava il beato Christian de Chergé. Ecco perché Tibhirine non si tratta proprio di un luogo, ma di un luogo possibile. Luogo possibile persino tra stranieri, dove ci conduce quella sete che non si spegne, forse mai, in nessun luogo, appunto, e che ci fa sfiorare il tetto dell’esistenza, il suo senso.
È questa la Tibhirine oggi da ricordare, da abitare.

 

Stefania Falasca – Avvenire, 8 dicembre 2018