Il triduo pasquale

Nel fluire del tempo, la Chiesa celebra il Triduo pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, quale culmine di tutto l’anno liturgico, che illumina il senso di tutta la nostra vita cristiana.
Portale d’accesso a questi giorni santi è la celebrazione vespertina del Giovedì santo che commemora l’Ultima Cena, nel segno di una vita esposta, donata e consegnata: l’amore si fa servizio e dono, nel gesto di un Dio in ginocchio davanti agli uomini per lavare loro i piedi, e nel simbolo di un pane spezzato e del vino versato, profezia della consegna totale della vita. La liturgia del Venerdì santo sosta sul mistero della morte di Cristo e trova il suo centro nella Croce, strumento di morte, diventato luogo luminoso, in cui la gloria di Dio si manifesta nella debolezza mortale di un amore vissuto sino alla fine.

Nel Sabato santo, la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba: è il silenzio sospeso dell’attesa, della speranza contro ogni speranza, perché «questa non è notte, | se donne in segreto preparano aromi, | se le piante mettono | gemme di luce, | se gonfia è la terra | di luce sepolta, | in attesa dell’alba» (D. M. Montagna). Così la Veglia pasquale fa risuonare di nuovo l’Alleluia, nella luce del Cristo risorto, centro e fine del cosmo e della storia. «A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare… Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è “più notte”, è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all’alba del primo giorno della settimana» (papa Francesco).

Dalle “ceneri” a Pentecoste

Itinerario comunitario verso la Pasqua

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale ha pensato e condiviso un percorso che accompagni la nostra comunità lungo il tempo di quaresima fino alla celebrazione della Pentecoste.

Potete scaricare il volantino che presenta le iniziative proposte, cliccando qui

Riportiamo l’introduzione al percorso realizzato dal CPP

Visto che quest’anno abbiamo dedicato la nostra attenzione al tema del tempo, soprattutto a partire dalla festa di San Luigi anche con la preghiera del venerdì, questo dedicare tempo, dare tempo agli altri, dare tempo a Dio, pensiamo si leghi bene al tema della Quaresima, perché la Quaresima si caratterizza prima di tutto per essere un tempo.  

Il fatto che parliamo di 40 giorni significa mettere al centro il primato del tempo sullo spazio. Questo è anche uno dei principi portati avanti da tempo da Papa Francesco a proposito del fatto che i processi di cambiamento e di conversione sono fatti non per occupare spazi o dei vuoti, ma – al contrario – per svilupparsi nel tempo e per dare tempo perché queste trasformazioni avvengano realmente.

La Quaresima è prima di tutto un tempo, un tempo non tanto da occupare, da riempire; non è un tempo da dedicare a più preghiera o più cose o anche solo più sacrifici, come spesso abbiamo imparato a pensare, ma è un tempo dedicato, un tempo per fare spazio e per dare tempo, per accettare i tempi lunghi. La Quaresima, infatti, si sviluppa su 40 giorni: un tempo non troppo lungo, ma neanche troppo corto; un tempo – in fondo – che non puoi dominare. Il tempo della Quaresima è un tempo che non domini interiormente, che non riesci a padroneggiare perché va oltre la nostra percezione immediata del tempo. Noi riusciamo a percepire generalmente un giorno, una settimana, dieci giorni forse, un mese.

Quaranta giorni è più difficile da percepire interiormente. Non a caso rimanda l’idea un po’ del deserto come tempo (e spazio) sconfinato, un tempo dove non ne vedi in modo netto i confini. Quindi c’è questo primato del tempo che occorre accogliere e accettare, proprio perché è dare tempo a Dio affinché venga a trasformarci.  Non è un caso che il tempo della Quaresima fosse il tempo che veniva dedicato a chi doveva diventare cristiano: era il cosiddetto tempo prossimo al battesimo per i neofiti, cioè i catecumeni, coloro che dovevano essere battezzati e – nello stesso tempo – era anche il tempo dei penitenti, il tempo prossimo più vicino alla Pasqua per coloro che erano scomunicati, cioè coloro che dovevano fare un percorso di ravvedimento per aver commesso dei peccati molto gravi. Questi penitenti – il giovedì Santo – venivano riaccolti nella chiesa attraverso il vescovo per poter celebrare la Pasqua.

In sostanza la Quaresima era il tempo più prossimo alla Pasqua per coloro che volevano diventare cristiani (i catecumeni) e per coloro che dovevano tornare ad essere cristiani (i penitenti). Questo ci dice che il tempo della quaresima non è il tempo dei bravi cristiani che hanno il coraggio e la forza di mortificarsi, ma è il tempo proprio di chi deve tornare a essere cristiano o comunque deve diventare cristiano. È il tempo del discepolato, del rinnovamento, per tornare ad essere figli.  Anche le rinunce che il tempo di Quaresima domanda e che leggiamo soprattutto nella liturgia del mercoledì delle ceneri, quella del digiuno dal cibo, l’elemosina – cioè la  rinuncia al possesso – e la preghiera come rinuncia a pensarci solo come se stessi e non in relazione a Dio, non sono azioni ascetiche, ma sono tre forme per rieducare il nostro desiderio.  È l’invito a provare la fame per poter gustare meglio il pasto Pasquale, a provare la fragilità e la rinuncia di cose per imparare a gustare i beni e la condivisione, a provare nella preghiera il vuoto, la rinuncia a sé, per imparare a gustare di più la propria dipendenza da Dio. Quindi fondamentalmente la Quaresima è un percorso dove si reimpara il proprio essere “dipendenti da”: dipendenti da Dio nella preghiera (nella preghiera io riconosco che non basto a me stesso ma che ho bisogno di qualcun altro), dipendenza dai beni (imparo che non sono tutti miei ma mi sono sempre donati quindi vanno condivisi), dipendenza anche dal cibo cioè dalla vita (la vita – nella figura del cibo – non proviene solo ed esclusivamente da me, ma è sempre vita ricevuta). Pertanto, il tempo serve per reimparare il desiderio tant’è che – appunto, se ci pensiamo – la forma più alta di comunione con Dio non è il digiuno. A volte pensiamo che il digiuno sia un modo per esprimere la propria dedizione, il proprio legame con Dio. Al contrario, la forma più alta di comunione con il Signore è proprio il pasto: il pasto Pasquale, il pasto domenicale, per cui il digiuno è proprio un allenamento, è una rieducazione del desiderio proprio per vivere poi una pienezza di comunione maggiore nel pasto eucaristico, nel pasto Pasquale. In questo siamo accompagnati dalla liturgia.  La liturgia ci accompagna in questo tempo (siamo nell’anno B) sia con le liturgie feriali che con le liturgie domenicali. Le une e le altre hanno un percorso già definito, dove soprattutto si mette in stretta relazione la prima lettura e il Vangelo. In particolare, ci accompagnano nella liturgia feriale il racconto dell’Esodo e nelle liturgie domenicali – soprattutto dell’anno B – nella prima lettura la memoria delle varie alleanze stipulate da Dio: alleanza con Noè, alleanza con Abramo, alleanza con Mosè e i 10 comandamenti, alleanza con Ezechiele, alleanza col nuovo spirito cantato dal profeta Gioele. Una alleanza che va rinnovata. Nei Vangeli, invece, ci accompagnano soprattutto i Vangeli di Giovanni (o meglio siamo nell’anno di Marco ma le prime due domeniche in tutti i tre anni della Quaresima sempre dedicate al tema delle tentazioni della prima domenica e al tema della trasfigurazione la seconda domenica). Le altre tre domeniche, che invece variano ogni anno, sono appunto prese dal Vangelo di Giovanni, dove abbiamo la purificazione del tempio (III), il dialogo con Nicodemo o meglio il tema del di Gesù innalzato sulla croce come il serpente innalzato nel deserto (IV), l’immagine del seme caduto in terra che muore porta frutto (V).  Quindi, qual è lo scopo  delle letture e delle liturgie domenicali del tempo di Quaresima? Quello di riformare il discepolo. Il discepolo si ristruttura o si ripensa nel suo discepolato dietro a Gesù attraverso la parola di Dio. Sicché siamo chiamati a seguire Gesù nelle sue tentazioni, noi tentati come Gesù tentato, noi trasformati/trasfigurati come Gesù trasfigurato e poi noi che dobbiamo purificare la nostra immagine di Dio e noi che siamo chiamati a ricomprendere i misteri della salvezza di Dio che ha tanto amato il mondo da dare suo figlio, dice Gesù a Nicodemo.  Infine, seguendo Gesù, siamo chiamati a prendere in considerazione anche il dono totale di noi stessi come seme caduto in terra. Quindi è un percorso di riscoperta del nostro essere discepoli dietro al Signore e da ultimo ricordiamo anche che la Quaresima non si comprende se non alla luce della Pasqua e del tempo di Pasqua.  Come afferma il liturgista Andrea Grillo, non sono solo 40 giorni, ma sono 40+3+50.  40 giorni di Quaresima, 3 giorni del triduo Pasquale che esplodono nei 50 giorni del tempo Pasquale; quindi, è un tempo che ci inizia alla Pasqua. Il tempo di Quaresima finisce col Giovedì Santo; seguono tre giorni di Pasqua (perché il triduo sono tre giorni di Pasqua riletti sotto tre prospettive diverse) che esplode nella domenica di Pasqua e che si perpetua – come un’eco – per 50 giorni. Fino a Pentecoste viviamo 50 giorni di vita Pasquale dove l’energia del risorto riforma la comunità.

Perché un bambino è nato per noi?

Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.

(Isaia, 9, 5)

La pace sembra oggi sempre più fragile e prossima a spezzarsi definitivamente. In tante, troppe parti del mondo, venti di guerre, conflitti, tensioni e rivendicazioni soffiano prepotenti.

Non ci sono solo le drammatiche guerre in Ucraina e in Terra Santa, dove assistiamo quasi con indifferenza alla uccisione di tante persone e alla rovina del futuro di questi popoli, ma sentiamo anche minacce di nuove guerre, di invasioni, di “soluzioni definitive” ai problemi dei profughi, che sembrano echeggiare le “soluzioni finali” proclamate dai regimi nella prima metà del ‘900.

Per chi invoca maggiori interventi militari, un incremento di spese belliche e sostegno ai soldati al fronte.

A chi proclama il “diritto a difendersi con ogni mezzo”, a salvaguardare la propria identità e il proprio patrimonio storico e culturale contro chiunque lo minacci, il Natale…, ogni anno, risponde con il segno più fragile e più semplice: un bambino.

Mi verrebbe da pensare che anche allora, come oggi, difronte alla profezia di Isaia, molti abbiano sorriso, scosso la testa, ironizzato su queste parole di speranza.

Chi oggi invita a deporre le armi, a trovare vie di riconciliazione, viene visto come ingenuo, incapace di stare nella realtà, intento ad invocare soluzioni impossibili.

Abbiamo bisogno davvero di un bambino. Abbiamo bisogno del Natale. Abbiamo bisogno, cioè, di un ribaltamento, che ci faccia guardare la realtà con occhi diversi, non ingenui, né incantati, ma capaci di cogliere la bellezza dell’umano.

“Troverete un bambino avvolto in fasce” annunciano gli angeli ai pastori. Niente di più, niente di meno. Ma è proprio questo che siamo chiamati a contemplare. È proprio un bambino sul quale siamo chiamati a tenere fisso il nostro sguardo. Non per farci commuovere dalla zuccherosa tenerezza di un bambinello, ma per recuperare lo stupore per l’umano, l’interrogativo che scaturisce da una vita fragile che nasce e che ci viene affidata.

La pace nasce dalla disponibilità a tornare a guardare gli altri come uomini e donne, e non come numeri o come problema, come combattenti di una fazione o di un’altra, come costi sociali da ridimensionare.

Se siamo chiamati a cercare e trovare un bambino è perché abbiamo bisogno di recuperare la grammatica dell’umano e dell’esistenza, fatta di parole come vita, cura, futuro, accoglienza, impegno, responsabilità…

Abbiamo bisogno di tornare ad incrociare volti concreti, mani che cercano e piedi che scalpitano, bocche che parlano e occhi che interrogano.

La “prima pace”, quella disponibile e a nostra portata, nasce da qui: dal rinnovare il nostro sguardo senza infantilizzare Dio, ma vivendo da credenti adulti.

Imparare ad attendere

di Lidia Maggi, in “Riforma”, 2008

Fermiamoci un attimo. Prendiamoci un po’ di spazio per riflettere sul tempo. Come viviamo il tempo?
La domanda può sembrare un po’ astratta, una questione da filosofi. Ma è davvero così? Come raccontare le nostre storie senza fare i conti con il tempo, con la memoria del passato, col nostro presente, con le ansie e le attese future?

Parlare del tempo è parlare di noi, delle nostre vite. E riflettere su di esso significa interrogarsi sulla qualità della nostra esistenza. Come stiamo vivendo? Come scorrono i nostri giorni, i nostri anni? Immediatamente ci assale un dolore. Ci sentiamo lacerati perché vorremmo vivere i nostri giorni nella piena consapevolezza, dando priorità alle cose e alle relazioni che contano. E invece ci ritroviamo a correre, a non avere mai abbastanza tempo per le persone che amiamo. Riflettere sul tempo è prima di tutto un atto doloroso che scatena sensi di colpa, sentimenti di inadeguatezza. Il primo istinto è la rimozione che si manifesta qualche volta con la cinica rassegnazione C’est la vie. Bisogna correre, agire, produrre: essere all’altezza degli standard sociali. Non siamo felici di questo modo di vivere, ma è la realtà. Abitiamo questo tempo, siamo figli di questa epoca. Non si può vivere fuori dalla storia. E così il tempo che dovrebbe dischiudere le promesse si presenta come minaccia, se non come aguzzino che ci tiene in ostaggio. Un ritmo che non ci appartiene, imposto da una società che valuta le persone per le loro performance, per la capacità di saper sfruttare al meglio il proprio tempo. Il tempo è denaro. E dunque affrettati, il tempo scade. Non puoi permetterti di perdere tempo, cogli al volo l’oggi, l’attimo fuggente.

Attendere, prego

La nostra società negli ultimi decenni ha subito tante trasformazioni, ma sul tempo ha mantenuto dei punti fermi: massimalizzazione dei profitti. La tecnologia ha quasi totalmente annullato i tempi morti. Le distanze si fanno sempre più brevi grazie alla rete, ai mezzi di trasporto sempre più veloci. Spendiamo i nostri giorni in una società che promette tempo e invece il tempo lo consuma. Le nostre biografie, così spremute, risultano accelerate, se non schiacciate sul presente. Non c’è tempo per la memoria, per ricordare, per rielaborare il vissuto.
Noi siamo l’oggi che incalza e ci toglie il fiato. Probabilmente è anche perché siamo così sbilanciati sull’immediato che fatichiamo a ritrovare una progettualità, a guardare al domani con sentimenti di speranza e attesa.
Il tempo corre tiranno in una società dove tutto viene vissuto con ritmi accelerati e attendere significa perdere tempo. È forse per questo che proviamo un senso di fastidio bloccati nel traffico, nelle file alla posta o quando veniamo lasciati in attesa al telefono: «attendere prego!».
Viviamo i tempi di attesa come un insopportabile ostacolo alla corsa della vita. Che il movimento sia interrotto dalla sosta, che le parole siano minacciate dal silenzio, che il fare sia costretto a lasciare il posto al pensare: tutto questo ci sembra un’inutile perdita di tempo.

Tutto e subito

Perché del resto attendere quando possiamo avere tutto e subito? Perché attendere per comperare una casa, avere una macchina o più banalmente per goderci una bella vacanza? Basta un mutuo, un prestito, comode rate… Non si vuole banalizzare la fatica di chi non avendo una casa e non riuscendo a trovare un affitto, è costretto ad accedere all’abitazione solo attraverso il mutuo. Ma non possiamo tacere i rischi racchiusi in una cultura che valorizza il presente a scapito del futuro, di un mercato che ti affascina con l’offerta di un prestito e ti convince che tu puoi comperare qualsiasi cosa anche se non hai i mezzi. I desideri si riducono così a bisogni da soddisfare nell’immediato. Non c’è più capacità di attesa, né tantomeno discernimento di priorità. È una nuova schiavitù quella che vincola tutti coloro che accedono a prestiti e sono costretti a vendere il proprio tempo futuro per

pagare ciò che hanno consumato nel presente. È poi così diversa la nostra condizione da quella di quegli ebrei che, nella Bibbia, non potendo saldare il proprio debito, erano costretti a consegnarsi come schiavi ai loro creditori? Non più di sette anni però poteva durare tale servizio. I nostri mutui, generalmente, durano quattro volte di più.

insegnaci a contare i nostri giorni

Come stiamo vivendo? Siamo così immersi in ciò che facciamo che la prospettiva di fermarci, di interrompere il flusso delle tante attività ci mette panico.
Che valore diamo al nostro tempo? Quali attese ci abitano? «Insegnaci a contare i nostri giorni» prega il salmista. Perché noi siamo fatti di giorni, quelli che abbiamo già abitato, il tempo dell’oggi e quello dell’attesa futura. Meravigliose creature, tessute di continuità e cambiamento. Fragili come clessidre di cristallo. E così facile che le nostre vite si crepino nella corsa e la sabbia si disperda trasformando in deserto i nostri giorni.

Le chiese che frequentiamo? Sono il nostro specchio. Quante attività proponiamo alla città, alla comunità senza davvero interrogarci sul senso del progetto. Preoccupati di fare, di riempire l’agenda.
Si può vivere anche un’intera vita di fede all’insegna delle tante cose da fare.

E non ci viene in aiuto una certa teologia che ha insistito troppo sul compimento delle promesse (in Gesù è finita ogni attesa), dimenticando l’invito di Gesù a vegliare ad attendere la sua venuta, i nuovi cieli e la nuova terra… Riscoprire nella fede una tensione tra promessa e compimento ci aiuta a curare un po’ della nostra miopia, ci strappa dall’immediato per ampliare il nostro orizzonte.

Una spiritualità dell’attesa

La sfida è dunque quella di imparare di nuovo la «grammatica dell’attesa», svuotandoci un po’ della nostra fretta e delle nostre sicurezze e lasciando spazio a quel Dio che vuole sorprenderci. Potrebbe essere un itinerario per il tempo di Avvento, un modo per prepararci al Natale e, un po’ più in là un aiuto per riconciliarci con i ritmi delle nostre vite, ridefinendo le priorità e ritrovare il respiro della vita.

“Sinodalità, serve una spinta di comunione”

di Mimmo Muolo in “Avvenire” del 24 ottobre 2023

Il Sinodo «non è una questione di aggiustamenti o riposizionamenti interni alla Chiesa. Un Sinodo così inteso è destinato a incidere davvero poco. Ce lo ricorda continuamente il Papa». Al contrario «una Chiesa che fa suo il metodo e i contenuti del cammino sinodale e che non smette – in tutti i suoi membri – di essere aperta all’azione dello Spirito in ordine alla realizzazione della comunione, è una Chiesa che può contribuire con maggiore credibilità a rendere migliore questo mondo».

Parola del vescovo Nunzio Galantino, che ha citato il teologo Yves Congar: «in molti persiste implicita l’idea che la Chiesa è fatta dal clero e che i fedeli ne sono solamente i beneficiari o la clientela. Questa orribile concezione si è impressa in così tante strutture e abitudini da sembrare scontata e impossibile da cambiare. E invece è tradimento della verità. C’è ancora molto da fare per declericalizzare la nostra concezione della Chiesa». Ne consegue che «la conversione invocata, prima del cambiamento delle strutture, richiede la maturazione di una spiritualità del “noi” ecclesiale». E dunque anche la sinodalità «richiede attitudini spirituali, che vanno coltivate e che non possono essere estranee ai percorsi di formazione di laici e ministri ordinati». In altri termini serve «una spiritualità della sinodalità che fa, di fatto, riferimento a una spiritualità di comunione, criterio di appartenenza alla Chiesa». Secondo Galantino, «coltivare tale spiritualità consente di vedere e vivere la Chiesa in una prospettiva dinamica, cioè in cammino». Prende forma in sostanza «una Chiesa inclusiva e non competitiva, che prende in considerazione la diversità dei carismi e pone l’accento sulle relazioni, sul dialogo, sulla corresponsabilità, sulla reciprocità e circolarità fra tutti i poli ecclesiali». Ciò significa che «al di là della sinodalità formale, che si dispiega nelle strutture e nei processi istituzionali come i consigli pastorali, i sinodi o i concili – ha proseguito il vescovo -, l’appello a camminare insieme e riunirsi in assemblea del popolo di Dio deve esprimersi nel modo ordinario di vivere e di operare della Chiesa. In modo da favorire e sviluppare la partecipazione e la corresponsabilità di tutti».

La conversione dunque riguarda sia i laici che i sacerdoti. Per i primi, ha spiegato Galantino, «si tratta di passare dalla dipendenza all’assunzione della responsabilità, che nasce dal battesimo. Per i presbiteri si tratta di passare dall’organizzazione alla riscoperta della dimensione della paternità».

Nella difficile stagione che stiamo vivendo, la questione del laicato è, a parere del vescovo, una delle più delicate. «La conversione richiesta oggi ai laici, nella prospettiva di una Chiesa sinodale, è quella di riscoprire e vivere il senso della corresponsabilità che si nutre di amore per la propria comunità, nella quale sono chiamati a portare il sapore dell’esperienza della vita». Ma perché questo avvenga e «nei laici si susciti una nuova volontà di impegno creativo – ha sottolineato il vescovo – occorre che essi si sentano partecipi di una comunità nella quale sono qualcuno, sono riconosciuti; debbono sentire che la loro presenza è desiderata e apprezzata».

Per i preti, invece, «la conversione parte da un serio percorso di formazione». Una formazione «che sradichi il fascino sempre più diffuso della logica accentratrice, per spingere verso uno stile paterno di conduzione della comunità. La paternità genera. E quando esercita l’autorità è per far crescere e non per far andare le cose secondo il proprio modello». Essere padri «significa guardare con fiducia ai propri figli, credere che anche loro “sanno fare qualcosa di buono” e permettere loro di farlo vedere, permettendo loro anche di sbagliare, aiutandoli a ricominciare, senza giudicarli e senza umiliarli». «Finché questo non diventa stile – ha concluso Galantino – la sinodalità stenterà a farsi strada».

Il diritto di Israele a difendersi e la festa dei mostri.

di Giuseppe Savagnone, in www.tuttavia.eu del 12 ottobre 2023

Solo un gruppo di terroristi?

Davanti alla violenza selvaggia dell’attacco di Hamas a Israele appaiono pienamente giustificati l’orrore e l’incondizionata solidarietà della quasi totalità del mondo occidentale. Una solidarietà che si è immediatamente estesa anche alle reazioni dello Stato ebraico nei confronti dei suoi aggressori. «Israele ha il diritto di difendersi», è stata la frase che è risuonata sulla bocca di politici, di intellettuali, e che anche papa Francesco ha fatto sua.

C’è però, in questa affermazione inoppugnabile, qualcosa di non detto, che andrebbe chiarito e che riguarda i destinatari e le modalità di questa azione di difesa.

«Schiacceremo i terroristi, come l’Isis», ha promesso Netanyahu. La domanda, però, è se davvero siamo davanti solo a un gruppo di terroristi, di cui i due milioni di persone che vivono nella striscia di Gaza, controllata da Hamas (un milione e duecentomila sono rifugiati palestinesi) sarebbero «ostaggio», come ha sostenuto Giuliano Ferrara alla fiaccolata per Israele.

In realtà, la recente storia di Gaza mette fortemente in dubbio questa narrazione. Gli israeliani (che nel 1967 l’avevano strappata all’Egitto con la “guerra dei sei giorni”), nel 2005 si erano ritirati, lasciandola al controllo dell’Autorità nazionale palestinese, con cui il governo di Tel Aviv, negli accordi di Oslo, aveva stretto un patto già dal 1993. Ma nelle elezioni che si erano tenute l’anno dopo, nel 2006, a vincere non è stata questa frangia, più moderata, bensì proprio il movimento islamico estremista di Hamas, che da allora è al potere.

Un esito dovuto al crescente discredito dell’Autorità palestinese, che, sotto la guida del vecchio presidente Abu Mazen, ha da tempo perduto ogni grinta nella rivendicazione dei diritti del popolo palestinese ed è sempre più affogata nella corruzione. Tanto che oggi, anche in Cisgiordania, l’altro territorio della Palestina dove Abu Mazen è rimasto ancora al potere, evita da anni di indire nuove elezioni perché tutti i sondaggi predicono, in caso si svolgessero, la sicura vittoria di Hamas.

Neanche a Gaza, in realtà, ci sono state, dopo il 2006, nuove elezioni. E sicuramente non si tratta di un regime liberale, come dimostra la sistematica repressione dei diritti delle donne – sulla stesa linea dell’Iran, lo Stato islamico  sciita a cui Hamas è più vicino – e in generale di tutti gli oppositori.

Un popolo di disperati

Ma a compattare dietro il suo governo il popolo della Striscia è venuto in soccorso, contro le proprie intenzioni, proprio Israele che, per reazione ai risultati elettorali del 2006, ha imposto un embargo totale sulla regione, con un soffocante controllo delle persone e dei beni in entrata o in uscita, determinando una condizione avvilente di dipendenza e un ulteriore impoverimento degli abitanti.

La Croce Rossa internazionale ha dichiarato l’illegalità di questa politica, che comportava una «punizione collettiva per le persone che vivono nella Striscia di Gaza» – due milioni di esseri umani – , trasformandola in quella che  lo scorso anno l’organizzazione non governativa Human rights watch ha definito «una prigione a cielo aperto», ma senza esito.

Così, la rabbia sociale  – esasperata da queste misure spietate e dalla colpevole inerzia dell’Autorità palestinese – , ha spinto le nuove generazioni nelle braccia di Hamas che, a questo punto, ha finito per esprimere la disperazione di un popolo senza speranza. Alla fine, oggi è questo popolo il vero bersaglio dell’azione di “difesa” di Israele.

Lo è, del resto, anche per motivi logistici. «Bisogna liberare Gaza anche con le bombe, anche con i carri armati, anche con l’esercito», ha gridato tra gli applausi scroscianti Giuliano Ferrara nel suo infiammato discorso.

Ma, in un territorio che è fra i più densamente popolati del mondo, con due milioni di persone stipate su una superficie di 360 km quadrati, le bombe sono inevitabilmente destinate a colpire prevalentemente i civili. Il bilancio di sei giorni di raid aerei sulla Striscia è di più di 1.500 morti, di cui 500 bambini.

Così è stato peraltro per l’embargo imposto da Israele nel 2007. Così è adesso per il blocco totale di carburante, acqua e luce con cui lo Stato ebraico ha risposto all’attacco di Hamas. A soffrire non sono certo solo i “terroristi”, ma la povera gente, uomini, donne e bambini, che sono allo stremo. Anche gli ospedali comunicano di non riuscire più a fare funzionare, senza elettricità, le loro apparecchiature, a cominciare da quelle delle sale operatorie e dalle incubatrici per salvare la vita ai neonati.

È strano che tanti acuti osservatori occidentali – giornalisti, personalità politiche, intellettuali – giustamente inorriditi davanti alla “strage degli innocenti” perpetrata da Hamas, non abbiano nulla da obiettare, anzi in molti casi plaudano, a questo massacro dei bambini e delle donne palestinesi.

Su questa linea di spietata violenza verso la popolazione si colloca anche l’ultimo ordine dato dal comando militare israeliano, che ha intimato lo sgombero entro 24 ore del nord della Striscia. In questo modo, la povera gente di questa zona – un milione di esseri umani, di cui molti erano già stati cacciati dalla loro terra, presa dagli israeliani, e vivevano lì da rifugiati –  viene costretta, da un giorno all’altro, ad abbandonare le proprie case, le proprie povere attività lavorative, il proprio mondo.

Un antiterrorismo che somiglia al terrorismo

Ma con questo siamo anche davanti alla risposta alla seconda domanda, quella relativa alle modalità. Qualche giorno fa, un quotidiano fuori dal coro ha titolato: «Scatta l’antiterrorismo. Assomiglia molto al terrorismo». Dove la differenza tra guerra e terrorismo è che la prima è pur sempre soggetta a delle regole, stabilite a livello internazionale, e ha come bersaglio il personale militare nemico, per distruggerlo, mentre il secondo regole non ne ha e, piuttosto che a sconfiggere un esercito mira a terrorizzare la popolazione civile.

Ora, in realtà questa è la tattica di Hamas, che non può certo competere con l’apparato militare di Israele, ma – come ha fatto anche nell’ultimo attacco –  si propone di colpire l’avversario seminando paura. Ma finisce per essere molto simile a questa anche la tattica dello Stato ebraico, che sa bene di non poter colpire al cuore i combattenti di Hamas –  protetti da una rete i 45 km di gallerie sotterranee fortificate – con i suoi raid aerei, ma infligge alla popolazione palestinese, oltre alle bombe, una serie di privazioni e di disagi, nella speranza (rivelatasi, come si è visto prima, fallace) di distaccarla dall’organizzazione armata, senza rendersi conto di fare così proprio il suo gioco.

Rientra in questo stile anche il ricorso, da parte dell’aviazione israeliana, ad armi vietate dalle convenzioni internazionali, come le bombe al fosforo bianco, vietate dalle convenzioni internazionali perché provocano tremende ustioni e, in chi sopravvive, gravi patologie.

Se i bambini ebrei bruciati da Hamas destano il nostro orrore, non meno ne provoca il pensiero che ce ne siano tanti palestinesi che stanno subendo in questi giorni la stessa sorte. Una tragica simmetria di mostruosità, che però, assurdamente, non trova riscontro nelle valutazioni dell’opinione pubblica occidentale, giustamente scossa dalla prima, stranamente insensibile alla seconda.

L’importanza della memoria

Ma i drammatici eventi di questi giorni vanno compresi alla luce di una storia, che non può certo essere invocata per attenuare l’assoluta condanna delle atrocità commesse da Hamas, anche se aiuta a capire la loro origine.

Una storia che comincia nel 1947, quando una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite stabilì la costituzione e la convivenza di uno Stato ebraico e di uno palestinese. Gerusalemme sarebbe stata invece una zona internazionale.

Anche se né palestinesi né israeliani hanno mai accettato questa spartizione, i primi perché si sentivano derubati di una terra che per quasi duemila anni avevano abitato e da cui ora erano cacciati, i secondi perché vedevano in essa la possibilità di un ritorno alle loro origini e la volevano tutta.

In realtà, più di settantacinque anni dopo, quella risoluzione resta disattesa. Lo Stato palestinese non è mai nato e i territori che avrebbero dovuto essere suoi, secondo la risoluzione dell’ONU, sono illegalmente occupati da Israele, tranne la striscia di Gaza e parte della Cisgiordania, che però non hanno neppure una continuità territoriale. Quanto a Gerusalemme, essa è stata proclamata da Israele, nel 1980, capitale di Israele.

Per di più, nei territori che ancora restano ai palestinesi e che sono sotto il suo controllo, il governo israeliano, in questi anni ha moltiplicato i nuovi insediamenti di coloni, violando ulteriormente la risoluzione dell’ONU.

Dal 2002, poi, il governo israeliano, con una decisione condannata dalla Corte di Giustizia e dall’Unione Europea, eretto in Cisgiordania un muro fortificato di più di 300 km che separa i più importanti territori palestinesi della Cisgiordania da Israele, separando le famiglie e le comunità che abitano e lavorano da un aparte e dall’altra del muro.

Le Nazioni Unite hanno esplicitamente dichiarato illegali, in più occasioni, queste evidenti prevaricazioni, senza che però né Israele, né i suoi alleati – primi fra tutti gli Stati Uniti – ne tenessero alcun conto.

Ultimamente, poi, il presidente Netanyahu – alle prese con pesanti accuse di corruzione e bisognoso, per sfuggire al processo, di rafforzare il consenso della destra estrema, ne ha avallati altri, andando questa volta contro il parere anche del presidente Biden, che vanamente ha cercato di dissuaderlo. Poi il diluvio. Che però, come dovrebbe essere chiaro, non è venuto “a ciel sereno”.

Per combattere i mostri

«Il sonno della ragione genera mostri», ha scritto Goya. Dall’una e dall’altra parte, in questo spietato conflitto ne sono stati scatenati parecchi, con costi umani spaventosi. Non si risolve il problema cancellando la memoria e riducendo tutto, come si cerca di fare, a un fenomeno di “terrorismo”.

Hamas non è l’Isis, perché ha dietro di  sé un popolo i cui diritti sono stati riconosciuti dall’ONU e sistematicamente calpestati.

A sua volta, non si può pretendere di partire, come fa Hamas, dalla premessa che Israele  non ha il diritto di esistere. Solo un reciproco riconoscimento  – che a Oslo, per un momento sembrava essere stato realizzato – può costituire una vera soluzione.  

Bisogna rafforzare, sia da parte israeliana che da parte palestinese, le frange – che pure esistono – delle persone ragionevoli, in grado di riaprire il dialogo. Ogni giustificazione di comportamenti disumani, da una parte e dall’altra, è un favore fatto alla festa dei mostri.

Il Papa: vicini a “un punto di rottura”. Innegabile il cambiamento climatico.

di Riccardo Maccioni in “Avvenire” del 5 ottobre 2023 mercoledì 2 agosto 2023

Il punto di partenza è perentorio: «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono sempre più evidenti». Anzi, «forse ci stiamo avvicinando a un punto di rottura». Lo scrive il Papa in apertura di Laudate Deum (Lodate Dio), l’Esortazione apostolica sulla crisi climatica che aggiorna l’enciclica Laudato si’ e che il Pontefice indirizza “a tutte le persone di buona volontà”. Il documento viene pubblicato non a caso il 4 ottobre, festa di san Francesco d’Assisi patrono dell’ambiente, conclusione del Tempo del Creato, e giorno di apertura del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Malgrado «opinioni sprezzanti e irragionevoli anche dentro la Chiesa», le responsabilità dell’uomo nel provocare il cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio, avverte il Papa. E il grave velocizzarsi dei fenomeni dipende «dagli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura negli ultimi due secoli». Alcune manifestazioni di questa crisi climatica, come l’aumento della temperatura globale degli oceani, l’acidificazione e la riduzione dell’ossigeno, la riduzione dei giacchi sono irreversibili per centinaia di anni. Tuttavia non bisogna cedere a diagnosi apocalittiche e irragionevoli. Si tratta piuttosto di assumere una visione più ampia «che ci permetta non solo di stupirci delle meravigli del progresso, ma anche di prestare attenzione ad altri effetti che probabilmente un secolo fa non si potevano nemmeno immaginare. Dobbiamo tutti ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi limiti». Ci vuole lucidità e onestà «per riconoscere in tempo che il nostro potere e il progresso che generiamo si stanno rivoltando contro noi stessi».

L’ultimo capitolo dell’Esortazione è dedicato alle motivazioni spirituali dell’impegno per l’ambiente. Scrive il Papa che «la fede autentica non solo dà forza al cuore umano ma trasforma la vita intera, trasfigura gli obiettivi personali, illumina il rapporto con gli altri». In questo contesto ai credenti viene chiesto di contribuire a realizzare una cultura nuova. Si tratta di non cedere alle lusinghe di una tecnocrazia che domina tutto e di non considerare l’uomo come un dominus assoluto. Lodate Dio è il nome di questa lettera, conclude il Pontefice, «perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso».

Triduo pasquale, cuore dell’anno liturgico e della vita della chiesa

di Benedetto XVI

All’inizio della Settimana Santa riportiamo la Catechesi di Benedetto XVI (19 marzo 2008) dedicata ai «tre giorni comunemente chiamati santi perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione» cioè «la passione, la morte e la risurrezione di Gesù». Il cristiano sa che «l’odio, le divisioni e le violenze non hanno mai l’ultima parola».

Cari fratelli e sorelle, siamo giunti alla vigilia del Triduo Pasquale. I prossimi tre giorni vengono comunemente chiamati «santi» perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione; ci riconducono infatti al nucleo essenziale della fede cri­stiana: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Sono giorni che potremmo considerare come un unico giorno: essi costituiscono il cuore ed il fulcro dell’intero anno liturgico come pure della vita della Chiesa. Al termine dell’itinerario quaresimale, ci apprestiamo anche noi ad entrare nel clima stesso che Gesù visse allora a Gerusalemme. Vogliamo ridestare in noi la viva memo­ria dell’amore del Signore per noi e prepararci a celebrare con gioia, domeni­ca prossima, «la vera Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste», come dice il Prefazio per il giorno di Pasqua nel rito ambrosiano.

Il Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena duran­te la quale Gesù ci ha lasciato il comandamento nuo­vo dell’amore fraterno.

Prima di entrare nel Triduo Santo, ma già in stretto collegamento con esso, avrà luogo in ogni comu­nità diocesana, la Messa Crismale, durante la quale il vescovo e i sa­cerdoti del presbiterio diocesano rinnova­no le promesse dell’Ordinazione. Vengono anche benedetti gli olii per la celebrazio­ne dei Sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio dei malati e il sacro crisma. È un mo­mento quanto mai importante per la vita di ogni comunità diocesana che, raccolta attorno al suo pastore, rinsalda la propria unità e la propria fedeltà a Cristo, unico Sommo ed Eterno Sacerdote.

Alla sera del Giovedì, nella Messa in Coena Domini si fa memoria dell’Ultima Cena quando Cristo si è dato a tutti noi come nutrimento di salvezza, come farmaco di immortalità: è il mistero dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Col gesto umile e quanto mai espressivo della lavanda dei piedi, siamo invitati a ri­cordare quanto il Signore fece ai suoi apo­stoli: lavando i loro piedi proclamò in ma­niera concreta il primato dell’amore, a­more che si fa servizio fino al dono di se stessi, anticipando anche così il sacrificio supremo della sua vita che si consumerà il giorno dopo sul Calvario. Secondo una bella tradizione, i fedeli chiudono il Giovedì Santo con una veglia di preghiera e di adorazione eucaristica per rivivere più intimamente la passione-amore di Gesù al Getsemani.

Il Venerdì Santo è la giornata che fa me­moria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la liturgia della Chiesa non prevede la cele­brazione della Santa Messa, ma l’assemblea cristiana si raccoglie per meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, per ripercorrere, al­la luce della Parola di Dio e aiutata da commoventi gesti liturgici, le sofferenze del Signore che ci salvano da questo male. Dopo aver ascoltato il racconto della passione di Cristo, la comunità prega per tutte le necessità della Chiesa e del mondo e adora la Croce.

Come ulteriore invito a meditare sulla pas­sione e morte del Redentore e per espri­mere l’amore e la partecipazione dei fedeli alle sofferenze di Cristo, la tradizione cri­stiana ha dato vita a varie manifestazioni di preghiera, che mirano ad imprimere sempre più profondamente nell’animo dei fedeli sentimenti di vera partecipazione all’amore di Cristo.

Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. Grande im­portanza viene data in questi giorni alla partecipazione al Sacramento della riconciliazione, indispensabile via per purificare il cuore e predisporsi a celebrare intimamente rinnovati la Pasqua. Almeno una volta all’anno abbiamo bisogno di que­sta purificazione interiore di questo rinnovamento di noi stessi.

Questo Sabato di silenzio, di meditazione, di perdono, di riconciliazione sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia, la domenica della Pasqua di Cristo. Veglia la Chiesa accanto al nuovo fuoco benedetto e medita la grande promessa, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento, della liberazione definitiva dall’antica schiavitù del peccato e della morte. Nel buio della notte viene acceso dal fuoco nuovo il cero pasquale, simbolo di Cristo che risorge glorioso. Cristo luce dell’umanità disperde le tenebre del cuore e dello spirito ed illumina ogni uomo che viene nel mondo. Accanto al cero pa­squale risuona nella Chiesa il grande annuncio pasquale: Cristo è veramente risorto, la morte non ha più alcun potere su di Lui. Con la sua morte Egli ha sconfitto il male per sempre ed ha fatto dono a tutti gli uomini della vita stessa di Dio.

Per antica tradizione, durante la Veglia Pasquale, i catecumeni ricevono il Battesimo, per sottolineare la partecipazione dei cristia­ni al mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Dalla splendente notte di Pasqua, la gioia, la luce e la pace di Cristo si espandono nella vita dei fedeli di ogni comunità cristiana e raggiungono ogni punto dello spazio e del tempo.

Cari fratelli e sorelle, in questi giorni singolari orientiamo decisamente la vita verso un’adesione generosa e convinta al vangelo; rinnoviamo il nostro «sì» all’amore del Padre rivelatoci in Gesù. I suggestivi riti del Giovedì Santo, del Venerdì Santo, il silenzio ricco di preghiera del Sabato Santo e la solenne Veglia Pasquale ci offrono l’opportunità di ap­profondire il senso e il valore della nostra vocazione cristiana, che scaturisce dal Mistero Pasquale e di concretizzarla nella fedele sequela di Cristo in ogni circostanza, come ha fatto Lui, sino al dono generoso della nostra esistenza.

Far memoria dei misteri di Cristo significa anche vivere in profonda e solidale adesione all’oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva ed attuale. Portiamo dunque nella nostra preghiera la drammaticità di fatti e situazioni che in questi giorni affliggono tanti nostri fratelli in ogni parte del mondo. Noi sappiamo che l’odio, le divi­sioni, le violenze non hanno mai l’ultima parola negli eventi della storia. Questi giorni rianimano in noi la grande speranza: Cristo crocifisso è risorto e ha vin­to il mondo. L’amore è più forte dell’odio, ha vinto e dobbiamo associarci a questa vittoria dell’amore.

Ad un anno dalla guerra…

di Gigliola Alfaro – 22 febbraio 2023

“A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, 438 bambini sono stati uccisi e 854 feriti. Circa 3,4 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria nel Paese. 1,5 milioni di bambini sono a rischio di depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico e altre patologie mentali, più di 5 milioni di bambini hanno subito un’interruzione nella loro istruzione, 2 bambini ucraini rifugiati su 3 non sono attualmente iscritti al sistema scolastico del paese ospitante, oltre 1.000 strutture sanitarie sono state danneggiate o distrutte, così come oltre 2.300 scuole primarie e secondarie”. Lo ricorda, oggi, Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef Italia.

“Questi non sono solo numeri: i bambini ucraini hanno sopportato 365 giorni di violenza, traumi, perdite, distruzione e sfollamento da quando la guerra si è intensificata nel febbraio 2022. I 7,8 milioni di bambini del Paese sono stati privati di 365 giorni di giochi, ricordi, istruzione e tempo con amici e familiari”, aggiunge Iacomini, precisando: “Questo significa 365 giorni in cui i bambini hanno trascorso i loro compleanni rannicchiati nei rifugi antiatomici anziché che a casa con i loro affetti. 365 giorni in cui i bambini hanno dovuto adattarsi a una vita in altri paesi piuttosto che giocare con i loro amici nel parco sotto casa. 365 giorni in cui i bambini hanno incontrato i compagni e gli insegnanti attraverso uno schermo, invece che in un’aula scolastica sicura e riscaldata. 365 giorni in cui i bambini hanno sperato che la vita sarebbe presto ‘ritornata alla normalità’”. Il portavoce dell’Unicef Italia rileva: “Mentre ci avviciniamo al termine di un anno, i bambini ucraini si sono  resi conto che il mondo è instabile, imprevedibile e può essere un posto terribile. La perdita di un senso di sicurezza di base ha un effetto catastrofico sul loro apprendimento e sullo sviluppo emotivo e sociale”.

Per Iacomini, “sebbene i bambini e le famiglie ucraine abbiano dimostrato un’enorme capacità di recupero, le ferite psicologiche di questa guerra potrebbero infatti segnarli per tutta la vita. A un anno dall’inizio della guerra, i bambini continuano ad affrontare la paura, l’ansia e il dolore associati alla perdita dei propri cari, alla separazione dalla famiglia, allo sfollamento forzato dalle proprie case, all’isolamento e al completo sconvolgimento della propria infanzia. Le ferite mentali della guerra possono ripercuotersi sui bambini fino all’età adulta. Per evitare una generazione di bambini segnati dalla guerra, occorre dare priorità alla loro salute mentale e ai loro bisogni psicosociali”.

Il portavoce dell’Unicef Italia conclude: “Questa guerra ha già privato i bambini ucraini di un anno della loro vita. Non possiamo permettere che questa li privi anche del loro futuro. I bambini ucraini hanno bisogno di pace e noi dobbiamo aiutarli a riprendersi e a ricostruire le loro vite”.

Ricucire la vita

di Mario Calabresi

Quanto tempo serve per ricostruire la storia di una vita, per mettere insieme tutti i frammenti di memoria necessari per comporre il disegno completo? Certo non un pomeriggio, ma quando Alì ha cominciato a raccontare non avrei mai immaginato che ci saremmo dovuti vedere altre diciannove volte. Venti interviste per trasformare un’etichetta – “profugo afghano” – nella complessità di un’esistenza piena di sfumature. Una vita che è stata un pellegrinaggio senza sosta, cominciato dalla sua famiglia, una famiglia di sarti, quando lui aveva solo due anni. Non avevano sogni ambiziosi, ma molto semplici: la ricerca di un po’ di pace e di un luogo tranquillo in cui fosse possibile lavorare, e vivere.
 

Abdullah Khaliqi, detto Alì, ha 38 anni, vive a Torino e ha un piccolo negozio di sartoria nel centro della città. È noto tra i suoi clienti per la sua precisione e la sua gentilezza, tutti lo salutano ma nessuno gli fa domande, forse per discrezione sabauda, forse perché non siamo abituati a interrogarci sulle storie delle persone. Io, una mattina, dopo che ero già entrato nel suo negozio almeno un paio di volte per farmi sistemare un orlo o mettere le toppe a un buco sul maglione, ho preso coraggio e gli ho chiesto da dove venisse. Mi ha spiegato che era afghano di Kabul e da quel momento è cominciato un dialogo che sarebbe durato per quasi un anno, fatto di chiacchierate lunghe e distese, di incontri brevi e faticosi e anche di lunghi silenzi.

Alì, come molte persone che hanno vissuto situazioni difficili, non sempre riusciva o voleva ricordare, io non lo forzavo mai, stavo zitto, a volte ci salutavamo così, senza dire nulla. E, dopo un po’, lui mi chiamava, pronto a proseguire il suo racconto. Mai, nella mia vita di giornalista, mi era capitato di andare così a fondo intervistando una persona, e quando ho cominciato non pensavo neanche lontanamente che quel racconto sarebbe diventato un lungo capitolo del mio nuovo libro.
 
Insieme ad Alì all’interno del suo negozio “TuOrlo” a Torino, la complessità della sua esistenza, la quantità di dettagli, incontri, speranze e dolori che Alì mi ha raccontato hanno dato forma, settimana dopo settimana, a una vita straordinaria, fatta di gesti di coraggio, attenzioni e generosità. Una vita che stupisce chiunque voglia allontanarsi dalle semplificazioni del nostro tempo. Pensate a quante se ne potrebbero applicare ad Alì, riducendolo a un numero, uno dei tanti: “profugo”, “clandestino”, “illegale arrivato su un barcone”, “richiedente asilo”… Perché Alì è stato tutte queste cose. Oggi davanti agli occhi ho un uomo che è riuscito ad aprire un suo negozio, a mettere su casa, a spedire ogni mese i soldi ai suoi genitori che ora vivono in Iran e che il mese prossimo si sposerà con Breshna – significa “luce” –, una ragazza afghana laureata in legge e fuggita da Kabul grazie a un aereo militare italiano quando i talebani sono tornati al potere.
 
Alì è riuscito a conquistarsi una vita serena e normale, quella che sognavano i suoi genitori, perché ha trovato persone che nei momenti più difficili hanno allungato una mano e non l’hanno lasciato affondare. È accaduto quando nel bosco al confine con la Bulgaria una voce gli ha detto di cambiare direzione per non essere colpito dalle guardie di frontiera; è successo quando l’amico Ahmad lo ha trascinato sulla coperta della barca che li stava portando in Italia, per evitare che soffocasse; quando il sindaco di un paese calabrese lo ha ospitato nella casa di una vecchia zia da poco scomparsa; quando una coppia di professori in pensione della Val Pellice ha impedito che dormisse alla stazione di Torino, o al parco, e gli ha aperto le porte di casa; quando un gruppo di amici ha garantito con l’agenzia per l’affitto del negozio. Il suo racconto mi dice che gli altri possono fare la differenza. Gli altri siamo noi.

La storia di Alì, dodicesimo capitolo di Una volta sola, è una di quelle a cui sono più affezionato e un esercizio di paziente ricostruzione del percorso di una vita, il lavoro che mi rende più felice.